martedì 10 luglio 2012

Un articolo di Paolo Becchi

Pubblichiamo di seguito un intervento di Paolo Becchi, ordinario di Filosofia del Diritto all'Università di Genova. Ci sembra necessario diffondere il più possibile la consapevolezza del carattere compiutamente negativo, e da contrastare in ogni modo, dell'azione di Giorgio Napolitano.
(M.B.)



 Tutti conoscono o dovrebbero conoscere i nomi di quegli intellettuali, quei professori, quei giornalisti che, a partire dall’entrata in carica del Governo Monti, hanno subìto una vera e propria “mutazione genetica”. Dietro teorie “neutrali” e “scientifiche”, una schiera numerosissima di “chierici” difende strenuamente gli interessi politici del Governo, rispetto al quale si è organicamente “allineata”. Non può essere spiegato altrimenti, del resto, il silenzio terrificante che ha accompagnato l’ inquietante vicenda del coinvolgimento del Presidente della Repubblica nella “trattativa Stato-Mafia”. Alcuni giuristi si sono persino spinti a dichiarare che il Presidente della Repubblica sarebbe il “più alto giudice italiano”, giudice supremo. Prima d’ora, soltanto Carl Schmitt era giunto a tal punto, quando, per giustificare l’epurazione della notte dei lunghi coltelli tra il 30 giugno e il 2 luglio 1934, definì Hitler “giudice supremo” (Oberster Gerichtsherr): «il vero Führer è sempre anche giudice. La giurisdizione fluisce dall’essere-Führer (Führertum)».


 Ma torniamo al presente, o, meglio, a ricostruire brevemente le vicende di questi mesi. Il 14 Febbraio scorso, l’inchiesta dei Pm palermitani, diretta ad accertare presunte trattative intercorse tra organi dello Stato, politici e la mafia nell’estate 1992, sembra conoscere una svolta: Claudio Martelli, ex ministro della Giustizia, chiama in causa Nicola Mancino, allora ministro dell’Interno, sostenendo di essersi lamentato con lui dei colloqui riservati intercorsi tra ufficiali del Ros e Vito Ciancimino. Mancino nega tutto, e, nella deposizione in aula al processo Mori (imputato per favoreggiamento alla mafia, a causa della mancata cattura, nel 1995, di Bernardo Provenzano), nega altresì di essere stato a conoscenza di asserite “trattative”. I Pubblici Ministeri non gli credono: «qualche uomo delle istituzioni mente», dichiara Antonio Ingroia. Il 9 Giugno Mancino viene iscritto nel registro degli indagati per falsa testimonianza.  Il 13 Giugno è la volta di Giovanni Conso, anche lui ex Ministro della Giustizia, indagato per false informazioni al pubblico ministero. Il 15 Giugno viene coinvolto il Quirinale: risulterebbero una serie di telefonate tra Mancino e Loris D’Ambrosio, consigliere di Napolitano, avvenute dopo un’audizione del primo in procura a Palermo. Mancino chiedeva, in quelle telefonate, un intervento del Capo dello Stato sui magistrati. «Il Presidente ha preso a cuore la questione», risponde D’Ambrosio. Il 16 Giugno una nota del Quirinale censura le «irresponsabili illazioni». Il Presidente della Repubblica dichiara di aver gestito la vicenda «secondo le sue responsabilità e nei limiti delle sue prerogative», e rende pubblico il testo di una lettera inviata dal Segretario Generale della Presidenza, Donato Marra, al procuratore generale presso la Corte di Cassazione: «Il Capo dello Stato auspica – vi si legge –  che possano essere prontamente adottate iniziative che assicurino la conformità di indirizzo delle procedure […] e ciò specie al fine di dissipare le perplessità che derivano dalla percezione di gestioni non unitarie delle indagini collegate». Ma quale “coordinamento”, se esso era già stato autorizzato? Il 27 luglio 2011, infatti, il vicesegretario generale del CSM Marco Patarnello aveva già trasmesso al ministro della Giustizia, al procuratore generale della Cassazione ed al procuratore nazionale antimafia la delibera con la quale il CSM autorizzava Pietro Grasso, a seguito della sua denuncia sullo «stallo istituzionale relativo al procedimento penale concernente la cosiddetta trattativa» a «richiedere a qualsiasi ufficio del pubblico ministero la trasmissione di atti di indagini che ritenga collegati ad altre indagini in corso presso una direzione distrettuale antimafia e impartire direttive sullo scambio di atti tra le diverse procure distrettuali antimafia». Il “coordinamento” tra le procure, pertanto, era già stato disposto prima delle telefonate e dell’interessamento di Napolitano. A cosa è dovuto dunque l’intervento del Presidente della Repubblica? Quale era l’autentica preoccupazione ed il reale obiettivo di quella lettera? Nessuno sembra avere interesse a domandarselo. Un giorno di incertezze, e la vicenda si chiude. I partiti politici che sostengono il Governo si allineano: «Il vergognoso attacco al Presidente Napolitano è grave» (Casini), «Indecente e pericolosa operazione di intossicazione e anche di depistaggio» (Cicchitto), «Attaccare il Presidente della Repubblica è attaccare lo Stato italiano» (Schifani), «Le insinuazioni nei confronti del Presidente della Repubblica sono basate su distorsioni dei fatti: è un’operazione inaccettabile» (Bersani). Michele Vietti, vice presidente del CSM, precisa: «La polemica che ha investito il Quirinale la trovo francamente incomprensibile […] Il Presidente della Repubblica è anche il presidente del CSM […] è lecito e doveroso che di fronte a denunce di presunte anomalie attivi tutte le azioni di coordinamento e vigilanza che l’ordinamento prevede». La notizia, in meno di due giorni, perde interesse: la stampa non ne parla più. Si è trattato solo di “insinuazioni sul nulla”.
 A noi pare, invece, che si tratti di una vicenda estremamente grave. Il Presidente della Repubblica rende pubblica la lettera inviata al procuratore generale presso la Corte di Cassazione, in cui egli interviene direttamente per assicurare il collegamento delle indagini, ritenendo di aver agito nei limiti dei propri poteri e prerogative. Poteri che deriverebbero dal fatto che il Capo dello Stato presiede il CSM, l’organo di autogoverno della magistratura. Poteri che, tuttavia, il Capo dello Stato non possiede, nonostante nessuno pare averlo notato. Il Presidente della Repubblica presiede il CSM in quanto “fuori da ogni potere” (così Ruini in sede di Assemblea Costituente) e non in quanto “espressione dell’interferenza di un altro potere” (Leone).  La Presidenza Cossiga tentò, è vero, di ridisegnare il ruolo del Capo dello Stato all’interno del CSM, ma – quali tra le diverse interpretazioni possano darsi – i suoi poteri non possono spingersi sino ad intervenire direttamente, al di fuori del CSM stesso, sulle attribuzioni del procuratore generale presso la Corte di Cassazione, il quale «esercita la sorveglianza sul procuratore nazionale antimafia e sulla relativa Direzione nazionale» (art. 76-ter ord. giud. e art. 104 D.Lgs. n. 159/2011, cd. “codice antimafia”). Pertanto è tutt’altro che pacifico che al CSM sia attribuita la competenza ad assicurare il coordinamento e collegamento delle indagini, imponendo determinate condotte al procuratore generale della Cassazione, che è l’esclusivo titolare del potere diretto di sorveglianza sul procuratore nazionale antimafia. Ma, anche a voler prescindere da tale questione, certo è che l’intervento del Capo dello Stato in quanto Presidente del CSM non potrebbe che essere esercitato attraverso l’organo collegiale che presiede, e non autonomamente. L’autonomia da ogni potere prevista dall’art. 104 Cost. a tutela della magistratura, del resto, va garantita «in tutte le direzioni e nei confronti di tutti gli altri poteri, quindi anche nei confronti del Presidente della Repubblica» (S. Sicardi). Né il Capo dello Stato è intervenuto pubblicamente, con una lettera indirizzata al CSM, bensì indirizzando privatamente una lettera al procuratore generale presso la Cassazione, nella sua qualità di titolare di poteri e attribuzioni distinte rispetto a quelle del CSM stesso.  Si tratta di un atto che non rientra né tra le attribuzioni “interne” (nella sua funzione di presidente del CSM) né tra quelle “esterne” del Capo dello Stato, il quale avrebbe potuto, al limite, inviare un messaggio al CSM in quanto titolare della funzione di indirizzo politico costituzionale. Il Presidente della Repubblica può certamente essere definito il “tutore e garante politico della Costituzione”. Ma ciò significa che egli ha il potere di risolvere le controversie «solo con mezzi politici» (Guarino), e non altri. Un’attività diretta a “sollecitare interventi funzionali al miglior esercizio possibile dell’attività giudiziaria” non costituisce un atto politico, ma oggettivamente amministrativo: un intervento diretto sull’organizzazione della giustizia, che non gli compete istituzionalmente.
  Resta ancora un’osservazione da fare. Nessuno si è chiesto se non fosse quantomeno insolito che il Presidente della Repubblica, per difendersi da “illazioni” e sospetti di un suo coinvolgimento, abbia reso pubblica una lettera che dimostra con ogni evidenza un esercizio, da parte sua, eccedente i propri poteri ed attribuzioni. Se concediamo al Capo dello Stato di non essersi voluto accusare da solo, allora la sua condotta non può non far sorgere il dubbio che, dietro quella lettera, vi sia qualcos’altro: si ammette un comportamento di una certa gravità, per nasconderne forse uno ancor più grave.
 Tutte queste considerazioni a cosa portano? È difficile che vi siano oggi le condizioni – costituzionali e, soprattutto, politiche – per procedere ad una incriminazione del Presidente della Repubblica per alto tradimento o per attentato alla Costituzione (art. 90 Cost.). La messa in stato d’accusa non dipende, infatti, da valutazioni tecnico-giuridiche o da “regole” costituzionali, quanto piuttosto da decisioni di natura politica. Anche se non si può arrivare a tanto, la vicenda impone, però, almeno una discussione politica sulla condotta tenuta dal Capo dello Stato. Il Parlamento ha la responsabilità di discutere quanto accaduto, di esprimere una posizione netta: Napolitano si è o no posto fuori (se non contro) dalla Costituzione, al di sopra della legalità costituzionale che egli stesso avrebbe dovuto garantire? Un ostinato silenzio, come quello che si è verificato in questo caso, crea, consapevolmente o meno, un precedente costituzionale inquietante.  

Paolo Becchi

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