venerdì 28 febbraio 2014

Spartaco Puttini sul "più Europa"

Riceviamo da Spartaco Puttini e volentieri pubblichiamo questo intervento, in origine apparso su gramscioggi e ripreso da vari siti.


Più Europa? No, grazie!
Quale sinistra per quale Europa
Spartaco A. Puttini


La crisi ha mostrato il vero volto del processo d’integrazione europeo. A dispetto di tanta pubblicità, oggi la Ue non gode di grande reputazione presso i popoli europei. Quando si parla di Europa occorre evitare i facili equivoci. L’Unione europea non è infatti l’Europa, ma una sua parte e l’Eurozona è, a sua volta, una parte della Ue. Ciononostante nel linguaggio corrente i termini sono interscambiabili.
Il processo di integrazione europeo si è ammantato di nobili ideali e anche di qualche utopia, rincorrendo il sogno federale degli Stati Uniti d’Europa ma realizzando l’incubo sovranazionale della Ue, cioè dell’Europa degli Stati Uniti.
Europa degli Stati Uniti sia nel senso che ad integrarsi sono stati i paesi di quella parte d’Europa soggetta all’egemonia Usa (significativo che l’allargamento dell’Ue ad est avvenga parallelamente all’espansione ad est della Nato), sia nel senso che la costruzione dell’unione avviene sotto la tutela americana, all’insegna dell’accettazione piena della reazione neoliberista già in voga nel mondo anglosassone e, in definitiva, come ulteriore tappa del processo di mondializzazione1.
Nicola Acocella ha recentemente sottolineato come l’accelerazione che vive il processo di integrazione europeo tra gli anni ’80 e gli anni ’90 avvenga in un clima segnato dall’affermazione del modello neoliberista sulla base dell’obiettivo di completare la costruzione di un mercato unico dei beni, dei capitali, delle persone2. Il processo si configura nei fatti sintonizzato alla reazione globale neoliberista, con la sua proposta di finanziarizzazione e libera circolazione dei capitali senza controllo, con la sua richiesta di stato minimo e privatizzazione, con il suo porre l’accento sull’autonomia del mercato e la lotta all’inflazione anziché sullo sviluppo orientato dalla mano pubblica e sulla lotta alla disoccupazione.
La spinta ad una maggiore integrazione dell’Europa occidentale, con il salto dalla Comunità all’Unione, avviene proprio in questa temperie, dal vertice di Lussemburgo che sancisce la firma dell’Atto unico europeo nel 1986, a Maastricht. L’intelaiatura e lo spirito della Ue sono caratterizzati e segnati dallo stigma reazionario. La credenza nella capacità di autoregolazione dei mercati e l’ostilità verso l’intervento pubblico spiegano in certa misura la scelta di introdurre una moneta unica soggetta ad un’istituzione bancaria centralizzata e conservatrice ossessionata dalla lotta all’inflazione e spiegano anche “l’incompiutezza istituzionale” in cui versa la Ue. Senza il complemento di altre istituzioni che sovraintendano ad una politica fiscale comune si riteneva scontato che sarebbe stato l’input della politica monetarista a disciplinare l’attività economica dei vari paesi e a far convergere le economie dell’Eurozona. Acocella rileva come “Ciò introduce una tendenza deflazionistica che successivamente accentuerà e prolungherà gli effetti della crisi economica iniziata nel 2007”3. Del resto, a sottolineare ulteriormente che una politica di compressione dei salari e dei diritti dei lavoratori era insita nell’impostazione che l’integrazione si era data era la stessa Commissione europea, che già nel 1990 indicava la strada maestra: “si è progressivamente affermato il convincimento che le divergenze economiche reali che si manifestano in squilibri esterni vanno affrontate di norma con misure di aggiustamento interno, piuttosto che con riallineamenti, cioè con un aggiustamento esterno”4. Vale a dire che già alla vigilia di Maastricht la Commissione aveva indicato come gli squilibri di competitività interni all’area della moneta unica non dovessero essere affrontati tramite la leva della svalutazione monetaria (che avrebbe invalidato il principio del cambio fisso su cui l’area stessa veniva costituita) ma tramite la svalutazione interna dei salari. Del resto, l’area valutaria a cambi fissi prima e la moneta unica dopo sono state volute a tutto pro del capitale e della sua possibilità di circolare liberamente senza pagare il pegno delle possibili svalutazioni. In proposito scriveva Padoa Schioppa in tempi non sospetti: “l’euro assume un significato speciale perché porta la creazione di un mercato alla sua conseguenza ultima, che è l’introduzione di una moneta unica”5.
Oggi è sotto gli occhi di tutti il fallimento del modello neoliberista così come lo sono le divergenze crescenti all’interno dell’Eurozona. Assistiamo ad una dinamica segnata da crescenti squilibri a causa dell’aumento del divario tra i paesi centrali dell’Eurozona e quelli periferici e semiperiferici da un lato, e tra le classi sociali, con una netta tendenza alla proletarizzazione da parte di fasce crescenti del ceto medio, dall’altro. Di fronte all’eurocrisi in corso ciascuno può toccare con mano come le ricette di austerità della Commissione europea e della BCE portino a un crescente immiserimento delle classi popolari e ad una brutale regressione dei diritti del lavoro in tutta la Ue, prospettando la formazione di masse di working poor, lavoratori poveri che non riescono a campare del proprio lavoro cui si sommano, nella disgrazia sociale imperante, quote rilevanti di disoccupati.
Ma questo non basta: occorre avere presente il quadro che nelle righe precedenti è stato didascalicamente abbozzato per comprendere che il problema posto dalle attuali politiche promosse dalla Ue risiede nello stesso DNA del processo di integrazione, che è, per così dire, nel manico.

mercoledì 26 febbraio 2014

Ecco il vero progetto di Renzi

di Fabrizio Tringali



"Se questa sfida la perderemo, sarà solo colpa mia, non cercherò alibi".
Bisogna riconoscere che non è usuale sentire un premier incaricato pronunciare una frase del genere mentre chiede la fiducia al Senato.
Considerando poi che Renzi sa benissimo che molti fra i capibastone del PD che lo hanno spinto ad accettare l'incarico, in realtà non vedono l'ora di farlo fuori, un tale coraggio sarebbe quasi apprezzabile, se non fosse che la credibilità del neo-presidente del consiglio è pari a zero. In molti già gli rinfacciano le dichiarazioni nelle quali si impegnava a "non fare come D'Alema", cioè a non diventare premier senza passare dalla legimittazione data dalla vittoria alle elezioni.
Renzi, quindi, semplicemente sta mentendo. Sapendo di poter mentire. O almeno sperando di poterlo fare senza pagare dazio.
Quando il suo governo salterà per aria (perché salterà per aria), dirà che non cerca alibi, che la colpa è sua, e che il fallimento è dovuto al fatto che lui ha davvero cercato di "fare le riforme", cercando di piegare, senza successo, le resistenze dei palazzi della politica. E chiederà agli italiani di pronunciarsi su questo, col loro voto.
Il fatto che tutto ciò potrebbe anche determinare la disintegrazione del PD e la nascita dell'ennesimo partito personale a disposizione del leaderino fiorentino, sono dettagli.
Fantapolitica?
Può darsi. Ma tutto ciò spiegherebbe perché Renzi sembra giocarsi tutto in un progetto che non pare avere grandi possibilità di riuscita, spiegherebbe perché, in una tale situazione, vada al Senato a prendere a schiaffoni l'intera Aula (alla fine i voti in meno rispetto al governo Letta sono quattro, ma gli incazzati sono molti molti di più..).
E spiegherebbe il feeling fra Renzi e Berlusconi, e i "rumors" su un ipotetico accordo per andare a votare tra un annetto....

P.s. : se davvero Renzi ha in testa qualcosa di simile a quel che ho scritto, si terrà ben stretto l'incarico di Segretario del PD. Dato che comunque si voterà con liste bloccate...

P.s.2: per molto tempo, a causa di ragioni personali, non ho potuto scrivere sul blog. Non so da quando potrò riprendere a pubblicare con regolarità. Spero presto.

lunedì 24 febbraio 2014

Il Ministro delle Equazioni (nel governo di Peppa Pig)



La composizione del nuovo governo non ha suscitato grandi entusiasmi, neanche tra i renzini più affezionati. È di tutta evidenza che si tratta di un'accozzaglia di "mezze figure", alcune delle quali  della statura necessaria per far parte di un Governo; ed è altrettanto evidente che lo scarso peso dei "nomi" ministeriali fa da pendant alla centralità assoluta e preponderante del premier, sulle cui esili spalle graverà tutto il peso dell'azione dell'esecutivo.
La complessiva marginalità delle figure che guidano i dicasteri è inoltre confermata da un dettaglio: il governo è stato formato trascurando qualsiasi criterio di rappresentanza dei territori. In un consesso di diciotto poltrone siedono cinque emiliani e due liguri, ma nessun veneto, o piemontese, o campano, o pugliese. Se queste persone contassero davvero qualcosa non sarebbe così.

Vorrei richiamare l'attenzione su un aspetto, che forse non tutti hanno notato, ma che pure è rivelatore. Uno dei due ministri liguri è lo spezzino Orlando, che è appena passato dall'Ambiente alla Giustizia. Il punto è che Orlando ha, come unico titolo di studio, la maturità scientifica. Per il resto ha sempre e solo fatto politica; la sua professione risulta essere quella di "dirigente di partito". Ricordiamo, di passata, che il Ministro della Giustizia è l'unico membro del Governo, a parte il Presidente del Consiglio, a venire menzionato in Costituzione. Questo per dire della importanza cardinale di questo ruolo. Si tratta, palesemente, di un ruolo di enorme responsabilità, che presuppone un alto livello di competenza. Se non altro, per permettere al Guardasigilli di valutare la bontà delle varie soluzioni, dei vari progetti di riforma.
Un discorso abbastanza simile, peraltro, lo si potrebbe fare per Beatrice Lorenzin, confermata al Ministero della Salute... con la maturità classica. E così come Orlando non potrebbe fare il cancelliere di tribunale (se non per le mansioni più semplici), Lorenzin non potrebbe fare l'infermiera.

Mi si risponderà: il capo di un dicastero non deve essere uno scienziato o un intellettuale. Deve essere in grado di dirigere una macchina burocratica; e nulla più dell'esperienza di partito è formativo in questo senso. E poi attorno ai ministri ci sono fior di capi di gabinetto, alti funzionari, consiglieri di ogni sorta, ecc. Io stesso sono personalmente a conoscenza delle persone che, dall'alto delle loro cattedre universitarie, “scrivono i testi” di Orlando. Dunque le competenze, negli uffici del Ministro, in un modo o nell'altro ci sono. 

Ma ora facciamo un esperimento mentale. Immaginiamo che al Ministero dell'Economia fosse andato, non un super-tecnico FMI-OCSE-ISTAT come Pier Carlo Padoan, ma un soggetto con un diploma di ragioneria. Cosa sarebbe accaduto? È facile immaginarlo: sgomento e terrore si sarebbero impadroniti delle redazioni dei giornali e telegiornali, nazionali ed esteri. Alla Giustizia può andare uno con il CV (e la faccia) di Orlando, ma l'Economia non può certo essere gestita da chi non ha gestito almeno una docenza in atenei internazionali.


Questo fatto è talmente ovvio da risultare stupefacente. E costringe e tornare con la memoria al passato, scoprendo che per trovare gli ultimi ministri “politici” all'Economia e affini (Tesoro, Finanze, Bilancio), se si esclude l'ibrida figura di Tremonti, bisogna risalire ai tempi di Rino Formica e Giovanni Goria. Come mai?
Ritengo che le ragioni siano due, entrambe piuttosto importanti, ma la seconda di più.
  1. l'Economia è al centro della nostra società; o meglio non l'economia, ma un suo aspetto, e cioè la crescita. La crescita è considerata dalle classi dominanti (e quindi dall'intera società) il valore più importante; anzi la premessa e il presupposto di tutti i valori. Per essere chiari, le garanzie e i diritti di cui godiamo in quanto cittadini sono variabili dipendenti della crescita del PIL: devono esserle sacrificati quando è necessario, e possono essere riconosciuti solo a condizione che l'economia e la produzione si espandano. Se così stanno le cose, allora le figure veramente decisive nel Governo sono solo quelle del premier e quello del Ministro dell'Economia. Gli altri personaggi che vi gravitano attorno sono, appunto, solo dei personaggi. Non è indispensabile che siano così competenti.
  2. A guidare ministeri come Salute e Giustizia possono andare dei politici “puri”. Ma a quello dell'Economia devono esserci dei tecnici. Questo è un punto essenziale. Se presso i media mainstream (ma non solo) è completamente assurdo pensare a un non economista in quel dicastero è perché quella economica viene considerata una scienza esatta. In un simile ambito la discrezionalità politica è ridotta al minimo, così come lo sarebbe in una operazione chirurgica: non saranno certo le scelte politico-ideologiche del medico a determinare l'esito dell'operazione. E così anche le scelte di politica economica sono frutto di valutazioni scientifiche obiettive; anzi a ben guardare non sono nemmeno delle vere e proprie scelte, dato che sono determinate dalla necessità della scienza. Dunque a sorvegliarne l'esecuzione non possono che essere degli scienziati, dei tecnici: Dini Ciampi Siniscalco Grilli Saccomanni Padoa Schioppa... Anzi, dato che l'economia determina tutto il resto (vedi punto 1), è sensato che siano degli economisti a ricoprire direttamente l'ufficio del Primo Ministro, come nel caso di Monti. 
     
    Insomma, Pier Carlo Padoan è un soggetto iper-competente, padrone di una scienza esatta quanto la matematica: è il Ministro delle Equazioni. Risolvere le equazioni non è questione di opzioni politiche, ma di competenza tecnica. La soluzione dei problemi è unica, è quella esatta. È evidente, è necessario, che si privatizzi, che si licenzi, che si tagli lo stato sociale. Lo dice la scienza. Non ci sono alternative.(C.M.)



domenica 23 febbraio 2014

Un dibattito allo Zenzero

Lo Zenzero è un circolo ARCI di Genova (via G.Torti 35). Martedì prossimo (25-2), alle ore 18, discuterò di "Euro sì o euro no?" con Marco Bertorello. Tutti gli interessati sono invitati a partecipare.
(M.B.)

giovedì 20 febbraio 2014

Perché la gente non si ribella?

Se “gente” suona troppo populista alle vostre orecchie, potete tirare in ballo il popolo, le masse, il proletariato, la classe operaia, i ceti subalterni, come meglio vi piace. Comunque sia, il problema è chiaro, ed è fondamentale. Dopo tante analisi sociopoliticoeconomiche, possiamo dire di aver capito, almeno in linea generale, cosa “lorsignori” stanno facendo, e perché. Ma la possibilità di una politica di contrasto ai ceti dominanti è appesa a questa domanda: perché la gente non si ribella?
Non ho risposte, lo dico subito. Mi sembra però di poter argomentare che alcune delle risposte che più comunemente vengono ripetute sono poco convincenti. Proverò allora a spiegare questo punto, nella convinzione che togliere di mezzo le spiegazioni deboli o incomplete possa aiutare ad elaborare spiegazioni migliori.

Risposta n.1: “La gente sta bene, o meglio, non sta ancora abbastanza male”. Il sottinteso di questa risposta è che l'ora della rivolta scocca quando si sta davvero male, quando arriva la fame. Ma questa idea è sbagliata. Se fosse corretta, il lager hitleriano e il gulag staliniano sarebbero stati un ribollire di rivolte, e sappiamo che non è andata così. La miseria non è condizione sufficiente per la rivolta, ma neppure necessaria: gli operai protagonisti di lotte dure, fra gli anni Sessanta e i Settanta del Novecento, non erano ricconi ma nemmeno miserabili ridotti alla fame.

Risposta n.2: “le condizioni non sono ancora peggiorate davvero”. Il sottinteso di questa risposta (che tiene conto delle obiezioni appena viste alla risposta n.1) è che la ribellione scatta non quando si sta male ma quando si sta peggio: quando cioè si esperisce un netto peggioramento delle proprie condizioni di vita. Tale tesi è facilmente confutata dall'esempio del popolo greco, che da anni vede le sue condizioni di vita peggiorare di continuo senza che questa faccia nascere una autentica rivolta (al più, qualche manifestazione un po' dura).

Risposta n.3: “mancano i gruppi dirigenti”. Qui si vuol dire che i ceti subalterni non hanno ceti dirigenti che li sappiano guidare in una lotta dura e intransigente. Questa risposta coglie ovviamente una parte di verità: è proprio così, mancano le persone capaci di essere leader della lotta. Ma a sua volta questo dato di fatto richiede di essere spiegato. Il punto è che non sempre, nei grandi mutamenti storici, c'è un gruppo dirigente già formato. Ci sono certo persone più capaci di capire e di dirigere, ma difficilmente è già pronto un autentico gruppo dirigente, unito e lucido. In Francia nel 1789, per esempio, un tale gruppo dirigente non c'era. È la lotta rivoluzionaria che lo ha forgiato. In molti casi, anche se non in tutti, i gruppi dirigenti si formano nel fuoco della lotta. Ma se il fuoco non divampa non si possono formare.

Risposta n.4: “la gente è corrotta”. Ovvero, ormai la corruzione, l'illegalità, la prevaricazione hanno contaminato anche i ceti subalterni, che non si ribellano contro l'orrido spettacolo offerto dai ceti dominanti perché lo trovano normale, e al posto loro farebbero lo stesso. Anche qui, si tratta di una risposta che coglie qualche elemento di verità, soprattutto in riferimento all'Italia, ma che mi sembra insufficiente. Non mi pare che nel sentire comune vi sia questa accettazione maggioritaria del farsi gli affari propri, eventualmente in modo illecito e senza guardare in faccia nessuno. Il diffuso disprezzo per i politici testimonia del contrario. È vero che, notoriamente, l'ipocrisia è l'omaggio che il vizio rende alla virtù, ma se anche si trattasse di ipocrisia questo testimonierebbe del fatto che un tale omaggio è necessario. Neppure in Italia è possibile dire apertis verbis “sono un ladro, siatelo anche voi”, e questo perché evidentemente la cosa non potrebbe reggere, perché non è vero che sono tutti ladri.

Risposta n.5: “siamo diventati tutti individualisti”: qui si  vuol dire che l'ideologia neoliberista è penetrata talmente in profondità che ormai tutti ci comportiamo come l'homo oeconomicus dei libri, calcoliamo freddamente i nostri interessi materiali e non ci facciamo smuovere dalle ideologie. L'obiezione però è semplice: proprio dal punto di vista del freddo interesse materiale appare evidente la necessità della rivolta collettiva. È evidente infatti, come diciamo da tempo in questo blog, che il progetto dei ceti dirigenti italiani e internazionali è la distruzione di diritti e redditi dei ceti subalterni, ed è pure evidente che il singolo individuo può ben poco. Ma allora la rivolta collettiva dei ceti subalterni appare come l'unica strategia razionale, proprio dal punto di vista dell'interesse personale.

Risposta n.6: “è venuta meno l'idea di una società alternativa” : insomma il crollo del comunismo ha trascinato con sé ogni tipo di rivolta popolare. Il capitalismo attuale viene concepito come l'unica realtà possibile e ciò che succede ai ceti popolari appare come una catastrofe naturale rispetto alla quale la ribellione non ha senso. Anche in questa risposta ci sono elementi di verità ma la spiegazione appare insufficiente: infatti i contadini si sono ribellati infinite volte, in Occidente e altrove, senza nessuna idea di una società nuova e alternativa, ma anzi chiedendo il ripristino dei vecchi rapporti sociali, turbati da innovazioni recenti o dall'arrivo di “nuovi signori”. La grandi rivolte contadine in Cina non hanno mai sovvertito l'ordine socioeconomico ma, quando erano vittoriose, portavano a sostituire una dinastia con un'altra. Qualcosa di simile si può dire delle rivolte di schiavi, che quasi mai mettevano in questione l'ordine sociale basato sulla schiavitù. Insomma, la  rivolta può esserci anche senza basarsi sull'idea di una società futura alternativa.

Risposta n.7: “non ci sono più i legami comunitari”, ovvero siamo tutti individui isolati che in quanto tali non riescono a lottare. Anche qui, c'è una verità ma è parziale. Se è vero che le lotte contadine sopra ricordate erano basate su legami comunitari, è anche vero che in altri casi dei legami comunitari si può dire quanto detto sopra a proposito dei gruppi dirigenti: ovvero che essi si formano nel fuoco della lotta. Le lotte operaie della fine degli anni Sessanta in Italia mettevano assieme operai immigrati da varie regioni del sud e operai del nord che magari chiamavano i primi “terroni”: i legami non erano dati a priori, si sono formati sulla base della condivisione degli stessi problemi e sull'individuazione degli stessi nemici.

Risposta n.8: “la gente non capisce, sono argomenti difficili”, o più brutalmente, “la gente è stupida”: ovvero la gente (il popolo, la classe ecc.) non capisce i suoi propri interessi, non capisce come essi siano messi in pericolo dagli attuali ceti dirigenti. L'argomento “la gente non capisce” è facilmente confutato dal fatto che i contadini cinesi o francesi in rivolta non erano necessariamente degli esperti di politica o di economia. Insomma per ribellarsi non è necessario avere le idee chiare sulle dinamiche socioeconomiche. Quanto alla tesi più brutale “la gente è stupida” si tratta di una tesi che è difficile da discutere, per la sua indeterminatezza (cos'è la stupidità? Come si misura?).
In ogni caso, anche ammettendo questa “stupidità” (qualsiasi cosa ciò voglia dire) essa non sarebbe una spiegazione ma a sua volta un problema da risolvere. Perché la gente è diventata stupida, ammesso che lo sia? Sembra poi strano dire che la stragrande maggioranza della popolazione, formata da tutti coloro che hanno da rimetterci dalle attuali dinamiche sociali ed economiche (casalinghe e operai, pensionati e professori universitari, scrittori e droghieri) sia diventata stupida nella sua totalità. Se si va al fondo e si cerca di capire cosa si intenda con questa “stupidità”, si vede alla fine che, per chi dice che “la gente è stupida”, la motivazione principale è appunto il fatto che non si ribella. Ma allora dire che la gente non si ribella perché è stupida vuol dire che non si ribella perché non si ribella, e abbiamo una tautologia, non una spiegazione.

Questo è quanto mi sembra di poter dire. Come ho detto sopra, non ho risposte da dare. Ciascuna delle risposte indicate contiene qualche elemento di verità, ma nessuna mi sembra cogliere davvero il problema, e anche mettendole assieme non mi pare si guadagni molto. Chiudo suggerendo  che forse abbiamo bisogno di altri strumenti, diversi da quelli della politica e dell'economia, abituali per me e per gli altri autori di questo blog (e, probabilmente, per la maggioranza dei nostri lettori). Altri strumenti che possono essere: filosofia, antropologia, psicologia. Si accettano suggerimenti, anche e soprattutto di lettura.
(M.B.)

martedì 18 febbraio 2014

Parliamoci chiaro

Franco Russo è un valido militante di ROSS@. Ha molto in comune con gli autori di questo blog in quanto, pur non occupandosi professionalmente di economia, finanza, diritto internazionale e filosofia politica, grazie al proprio impegno auto-didattico riesce e costruire un punto di vista autonomo sulla crisi e sulle principali vicende poltiche; e a scrivere saggi pregevoli, come questo, di cui torneremo a parlare.
Dispiace dunque di vedere il compagno Russo impelagarsi in contraddizioni logiche degne del miglior Vendola (absit iniuria verbis).
Leggiamo questa intervista. Apprezziamo tutte le cose intelligenti (e non sono poche) che vi vengono dette. Ma chiediamoci come la stessa persona riesca a dire

Non mi persuade affatto la proposta della fuoriuscita dall’Unione Europea, e spiego il perché: se fatta a livello di singolo paese, sarebbe semplicemente un’uscita ‘sovranista’.Io penso che sia molto giusto invece lavorare per rompere l’euro, per rompere l’Unione Europea, perché questo implica appunto un processo in cui deve essere coinvolta la classe operaia di tutti gli altri paesi (...)

per poi affermare, in polemica con il progetto della Lista Tsipras:

una lista che vuole “rinegoziare” parte già sconfitta, il problema è togliersi il cappio dal collo. Se andassi al governo chiederei la fuoriuscita dall’Unione, prevista dal Trattato di Lisbona: le discussioni sul deficit di democrazia sono insufficienti, potevano andar bene nel quadro di Lisbona, ma l’approvazione dei trattati di cui si è detto ha mutato la situazione. La rottura è l’unica risposta alla crisi.

La prima impressione, ammettiamolo, è che Russo si sia bevuto il cervello. Le due frasi non meriterebbero altro commento.
In realtà, io penso che la posizione di Russo sia razionale, ma che risenta degli effetti di un condizionamento ideologico; anzi, della necessità di distinguersi. L'autore ci sta dicendo che non crede nell'uscita di un singolo paese dalla UE: l'Unione andrebbe piuttosto demolita dall'azione concertata di più paesi. L'unione dei popoli (e degli operai) europei contro il cartello delle borghesie europee: tale dovrebbe essere il segno della lotta anti-UE. Un segno internazionalista, dunque, e non di gretta autarchia. E su questo siamo tutti d'accordo. Certo però che se una qualche forza rivoluzionaria, di cui casualmente Russo fosse parte, si trovasse per avventura al governo, non potrebbe lasciarsi sfuggire l'occasione di attivare, unilateralmente, la clausola di recesso. Sarebbe irresponsabile fermarsi ad attendere che altri paesi lo facciano. Tutto questo è abbastanza ovvio, e si riflette nella seconda affermazione di Russo.

Dunque sciogliere la contraddizione è facilissimo: il recesso dall'Unione deve essere inserito nel programma delle forze rivoluzionarie di più paesi, ma ciò non significa che la prima che arriva al potere debba attardarsi ad aspettare le altre. Né significa che la prospettiva della cancellazione dell'Unione debba essere scompagnata dall'idea che si debbano costruire, in futuro, altre strutture sovranazionali, che siano al servizio dei lavoratori. In fondo il titolo della prima pubblicazione di Marino Badiale e Fabrizio Tringali era Liberiamoci dall'Euro, per un'altra Europa!

Insomma, caro Franco Russo, non c'è alcun bisogno di rimanere nell'ambiguità. Insisti sul fatto che se andassi al governo chiederesti la fuoriuscita dall'Unione, e non contraddirti da solo! Si tratta peraltro di una posizione molto netta e avanzata, a differenza di altre. Dunque non c'è nessun bisogno di offuscarla con parole poco chiare. (C.M.)

domenica 16 febbraio 2014

Nessun dubbio

Magari avevate dei dubbi, sulla cosiddetta “lista Tsipras”. Per fortuna c'è l'autorevole intervento di Bertinotti, che contribuisce a fugarli definitivamente. Adesso che anche Bertinotti, dopo Toni Negri, appoggia la lista Tsipras, si può essere assolutamente certi che si tratta della solita stupidaggine di sinistra “radicale”, che di autenticamente radicale ha solo la propria incapacità di capire la realtà e incidere politicamente su di essa. Il simbolo di questa nullità politica è proprio il periodo in cui  Bertinotti è stato segretario di Rifondazione: grandi chiacchiere più o meno epocali che nascondevano malamente la realtà, cioè il fatto che l'unico ruolo concreto del partito era esclusivamente quello di “coprire a sinistra” le politiche antipopolari e regressive del centrosinistra (ruolo che è adesso passato a SEL). Chi ne ha voglia, si legga il brano citato di Bertinotti: vi scoprirà il solito vuoto magniloquente e presuntuoso tipico del personaggio. Abbiamo già detto che la richiesta minimale per prendere sul serio chi scrive sulle elezioni europee è che vengano almeno pronunciate le parole “euro” e “Unione europea”: Bertinotti non lo fa, e non c'è davvero molto da aggiungere. Certo, in compenso egli fa l'elenco di tutte le cose belle che vorrebbe, per esempio


La costruzione di democrazia e la democratizzazione, contro il potere della Troika, dei processi istituzionali; la profonda modifica dei trattati e il ridisegno del ruolo della Bce; la cancellazione del fiscal compact e la definizione di un programma alternativo all'austerity; la ristrutturazione del debito e la sua riduzione; un sostanziale riequilibrio tra i paesi del Mediterraneo e quelli dell'area tedesca


Potremmo aggiungere, per quanto ci riguarda, che anche noi vogliamo tutto questo, e aggiungiamo che vogliamo anche che sia “tre volte Natale, e festa tutto l'anno”, e non ci basta, vogliamo pizza, birra e sesso per tutti (e tutte). Tanto, cosa costa, a noi o a Bertinotti, stilare simili elenchi? Se ci si vuole mettere sul piano della realtà, l'economista greco Costas Lapavitsas ha già detto tutto quello che c'è da dire, ovvero che non si possono fare politiche economiche radicali rimanendo nell'euro. Il resto è vanità, nient'altro che vanità.
(M.B.)



sabato 15 febbraio 2014

L'errore di Renzi

Riprendiamo un articolo di Franco Lucenti, dal sito Senza Soste, che ci sembra largamente condivisibile.
(M.B.)



L'adrenalina del potere. È solo con questa motivazione che può essere spiegata la decisione di Matteo Renzi di abbattere con una spallata Enrico Letta e marciare verso Palazzo Chigi. È l'adrenalina, simile a quella che ti sale quando ottieni tanti successi consecutivi e quindi ti senti invincibile, che in politica deriva dalla possibilità di mettere le mani sullo scettro del potere, di sedere nel posto di comando. A questa tentazione è difficile resistere, ma Renzi pareva avere in testa un piano preciso e graduale che lo avrebbe portato prima o poi a governare il paese con un regolare mandato degli italiani. Pareva. Perché invece non ha resistito, e si è subito avventato con voracità famelica sul trono del suo collega di partito Letta, compiendo, con una mossa sola, una incredibile serie di errori.
Vecchia politica
 Il primo (lampante) errore è quello di rispolverare un classico della vecchia politica sia della Prima che della Seconda Repubblica: il subentro a legislatura in corso. Proprio lui che ha costruito tutta la sua immagine e il suo successo sul concetto di "rottamazione" (anche perché, o usava quello o non aveva speranze, visto che le sue idee sono sempre state "praline del nulla" per dirla alla Crozza), arriva al potere con un blitz analogo a quelli con i quali la Dc per decenni ha cambiato governi a seconda delle guerre interne tra le varie correnti. Oppure (peggio) come quello che portò al governo D'Alema nel 1998 facendo fuori Prodi. Sembra la pena del contrappasso, perché come tutti ricorderanno, l'uomo simbolo della rottamazione di Renzi, il "rottamato" per eccellenza, è sempre stato proprio Massimo D'Alema. Oggi Renzi arriva al potere con un tradimento fratricida che richiama alla mente proprio il comportamento di D'Alema. Uno sbaglio madornale quindi, perché gli fa perdere improvvisamente quello che era il suo principale punto di forza: essere il "nuovo" che va in discontinuità con i vecchi schemi della politica.
Monti, Letta, Renzi
 Il secondo errore è quello di decidere di diventare il terzo premier consecutivo dopo Monti e Letta a salire a Palazzo Chigi senza un chiaro mandato degli italiani. Una scelta in antitesi col suo personaggio "pop" che dice di avere la sua legittimazione perché votato dagli elettori. In questo modo diventa uno dei tanti, un Letta, un D'Alema, un funzionario di partito grigio e noioso. Probabilmente proverà ad autolegittimarsi attraverso l'investitura delle primarie di dicembre, ma sa bene che sarebbe solo una difficilissima arrampicata sugli specchi. I voti (a 2 euro l'uno) delle primarie del Pd infatti non sono ovviamente i voti di tutti gli italiani, e lui tra l'altro ha sempre puntato proprio sul superamento degli elettorati classici, dicendo che voleva andare a prendere i consensi anche tra chi ha sempre votato a destra. Ora invece non solo non li prende, ma lancia addirittura al paese il messaggio che per andare al governo basta vincere la corsa interna a un partito (per 50 anni in Italia è stato così con la Dc), con buona pace del resto degli elettori. Un partito, il Pd, la cui base tra l'altro ha dimostrato ancora una volta uno stato mentale di assoluta confusione, votando prima Bersani e gridando a Renzi quasi come il male assoluto, per eleggere poi in massa (dopo appena un anno) proprio Renzi. Della serie: "checcefrega" dei programmi, andiamo a tentativi.
"Mai più larghe intese"
 La coerenza in politica è fondamentale, ti presenta sempre il conto. Renzi ha vinto le primarie di dicembre al grido di "mai più larghe intese". Era lo slogan principale, quello che lo fotografava come l'uomo del superamento degli inciuci e dei compromessi. Oggi, ad appena due mesi da quel proclama ripetuto in continuazione, un governo di larghe intese si appresta ad andare a presiederlo. E anche qui ritorna uno schema classico della vecchia politica, quello delle promesse che durano poco e poi vengono disattese dai fatti. Quello degli slogan vuoti che poi non hanno mai un seguito. Quello che un giorno puoi dire #enricostaisereno (il famoso hashtag su Twitter con cui tranquillizzava Letta) e il giorno dopo farlo fuori senza pietà.
Carta "bruciata"
 Un altro errore è quello legato al futuro che poteva avere davanti, anche per la sua giovane età. Avrebbe potuto con molta calma far lavorare il governo Letta oppure, se proprio venivano a mancare i presupposti, farlo cadere ma chiedere di andare subito alle elezioni, dove avrebbe probabilmente vinto dicendo che lui è sempre stato contrario alle larghe intese. E dove avrebbe trovato sia un Movimento 5 Stelle in crescita ma probabilmente non ancora abbastanza forte da poter vincere, sia una destra ancora frastornata dalla decadenza di Berlusconi e dalla frattura Forza Italia-Nuovo Centrodestra. In questo modo invece, se veramente andrà (come dice) fino al 2018, corre il fortissimo rischio di preparare il campo ad una successiva vittoria avversaria (con i 5 Stelle mina vagante che probabilmente riusciranno a limare alcuni dei loro attuali difetti), come accadde nella legislatura 1996-2001, quando il centrosinistra dei Prodi-D'Alema-Amato fu lo spot migliore per la vittoria di Berlusconi. Se questo avvenisse, Renzi si troverebbe ad assistere al film della propria gioventù (politica) bruciata. Si ridurrebbe ad essere l'ennesima "carta persa" del centrosinistra italiano, che dalla Seconda Repubblica in poi, non ha mai azzeccato un leader, visto che hanno sempre perso tutti e l'unico che ha vinto due volte (Prodi) è durato in entrambi i casi meno di metà legislatura.
Re Giorgio
 Tornando all'argomento elezioni mancate, c'è da chiedersi perché Renzi non le ha chieste. E la risposta è semplice, perché Napolitano non voleva. Lo ha detto chiaramente pochi giorni fa Re Giorgio, con tono anche molto infastidito: "Elezioni? Non diciamo sciocchezze!". Un diktat passato quasi sotto silenzio, ma molto grave in un paese democratico. Un Presidente della Repubblica che, come un sovrano assoluto, decide autoritariamente che dell'ipotesi elezioni non si può neanche discutere, perché lui ha deciso che non si fanno nonostante la crisi di governo. Renzi, di fronte a questa imposizione, ha deciso di abbassare la testa, legittimando praticamente il potere assolutista del quasi novantenne "padre della patria" Napolitano. E soprattutto lanciando un messaggio con cui (stonando con la sua immagine artificiale di uomo coraggioso e spavaldo) si dimostra debole e incapace di imporsi su una carica non elettiva come quella del Capo dello Stato. Questa mancanza di coraggio è un altro errore strategico.
 In definitiva, Renzi ha fatto una scelta abbastanza incredibile, se messa a confronto con la sua strategia comunicativa di uomo che cerca una carriera politica basata sull'avanzamento a furor di popolo. Un autogol maldestro e dilettantesco, una mossa da principiante, o per dirla con le parole di Prodi di cinque giorni fa, un suicidio politico. Se così sarà, noi (che di Renzi abbiamo sempre denunciato le idee pericolose) ovviamente esulteremo.




Addendum: sullo stesso tema segnalo un altro interessante articolo, di Leonardo Mazzei.

martedì 11 febbraio 2014

A tutto c'è rimedio!

Sergio De Nardis, capo economista di Nomisma, la società di analisi economica di Romano Prodi, ha pubblicato un Report che non avrebbe sfigurato su Goofynomics. Prima di addentrarci nella lettura del documento, e di provare a trarne qualche suggestione politica, conviene ricordare che De Nardis non è nuovo a interventi "non ortodossi". Basta leggere alcuni dei suoi ultimi interventi (ad esempio qui, o magari qui) per rendersi conto che le tesi sostenute nel Report non sono un fulmine a ciel sereno. Inoltre, sarebbe consigliabile un po' di prudenza prima di concludere che secondo Prodi bisogna abbandonare l'Euro. In primo luogo non è corretto trasferire le opinioni di De Nardis su quelle del Professore; in secondo luogo Prodi ancora indulge in dichiarazioni di questo tipo. Non traiamo conclusioni precipitose.

Ma poi, De Nardis vuole davvero archiviare l'esperienza eurista? A leggere il documento, parrebbe proprio di no: ad una esposizione "goofysta", e del tutto condivisibile, delle vere origini della crisi degli eurodeboli non segue l'invito a fare a meno della moneta unica. Anzi, si delinea un percorso che dovrebbe portare al salvataggio di quest'ultima.

È vero che "l'aggiustamento competitivo assegnato unicamente alle politiche deflative dei paesi in deficit" viene qualificato come "un processo lungo, rischioso impropriamente sbilanciato". Ma la soluzione non è da trovarsi in una fine della moneta unica, bensì in un "framework più simmetrico per distribuire lo sforzo del riequilibrio anche sui paesi in surplus e rendere meno dolorosa l’azione di correzione dei periferici". Tale framework dovrebbe consistere in una maggiore inflazione, sopratutto nei paesi del centro (Germania in testa). Per raggiungerla, ci vorrebbe uno stimolo di tipo monetario e uno di tipo fiscale: in particolare, quest'ultimo dovrebbe riguardare 
riforme strutturali nei paesi in surplus che, simmetricamente a quelle richieste alle economie in deficit, portino a potenziarne i fattori interni della crescita economica, dando luogo a una più sostanziale spinta della loro domanda domestica e, di conseguenza, a un  contributo più significativo allo sviluppo equilibrato dell’intera area euro.
 E qui il lettore attento dovrebbe ricordarsi qualcosa...

Dato che De Nardis non è un demagogo, egli ci chiarisce quali dovrebbero essere gli strumenti (il "come") per arrivare a un simile risultato. E sono:

  1. L'azione della Banca Centrale Europea, guidata da Mario Draghi, che dovrebbe attuare una politica monetaria espansiva, usando tutti gli "strumenti a disposizione per contrastare la bassa inflazione"
  2. Le altre istituzioni UE, che dovrebbero divenire il teatro di una una "coalizione di interessi in grado di premere per un cambiamento nella direzione di marcia europea". Ciò dovrebbe avvenire in particolare durante il semestre di presidenza italiano del Consiglio dell'Unione (da non confondere con il presidente del Consiglio Europeo). 
  3. Infine l'azione del governo tedesco. Non viene esplicitato, ma mi permetto di insinuare che l'ingresso nel governo di Berlino dei socialdemocratici sia un po' il sottotesto dell'intero Report. I socialdemocratici sono la fazione tedesca più incline a lavorare nell'interesse dell'Unione, e tra non molto il loro ruolo sarà riconosciuto con l'investitura di Martin Schultz a presidente della Commissione Europea. 
Come si vede la gran parte delle responsabilità indicate da De Nardis gravano sulle spalle del ceto politico (e tecnocratico) italiano. Provincialismo? Non è detto.  Paradossalmente, il ceto politico italiano è probabilmente l'unico in Europa in grado di far "ragionare" la Germania (cioè la Bundesbank). Consideriamo i seguenti elementi:
  • l'Italia, pur ospitando alcune tra le regioni economicamente più arretrate d'Europa, è da anni un contributore netto dei Fondi Sociali europei.
  • L'Italia, pur non essendo particolarmente esposta nei confronti delle banche dei PIGS, ha impegnato decine di miliardi di euro nella costruzione del "Fondo Salva-Stati", rendendo così possibile l'intera operazione.
  • L'Italia è l'unico paese ad aver ottemperato ai termini del Fiscal Compact. È l'unico, insieme alla Germania, ad aver inserito il principio del pareggio (o equilibrio) di bilanco in Costituzione, e i suoi conti sono tra i più solidi d'Europa. 
  • L'Italia è l'unico paese europeo a non aver vissuto né una crisi bancaria, né una stagione di grandi "salvataggi" e nazionalizzazioni degli istituti di credito (trucchi contabili esclusi).
  • L'Italia è in grado di far sue le istanze di tutti i debitori della Germania, cioè della maggior parte dei membri dell'Eurozona.
  • L'Italia ha un rapporto privilegiato con la BCE (e pure con gli USA, che male non fa).
  • Last but not least, l'Italia è un gigante economico.
Dunque, l'ipotesi di De Nardis non è affatto peregrina; e il ceto politico italiano potrebbe mettersi alla testa di una coalizione in grado di usare i poteri propri delle istituzioni UE per salvare l'Euro, mettendo in minoranza quelle forze che, in Germania, non intendono cedere di un millimetro dalle posizioni dell'austerità. Nota bene: dell'austerità in Germania, che ad cancellare l'austerità dai paesi del Sud Europa non ci pensa proprio nessuno.

Certo, qualcuno potrebbe giudicare inverosimile un tale quadro. Dopotutto a rappresentare l'Italia in Europa è Enrico Letta. E Letta è un politico debole, privo di consenso popolare, prigioniero dei condizionamenti della sua fragile maggioranza, privo di carisma e di credibilità.

Ma a tutto c'è rimedio! (C.M.)

lunedì 10 febbraio 2014

Squinzi è terrorizzato

figurarsi come stiamo noi...


http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-02-08/squinzi-terrorizzati-economia-reale-ci-sono-problemi-che-rimangono-irrisolti-inizio-crisi-130553.shtml


aggiungo la seguente frase, presente (virgolettata) nella versione cartacea e assente in quella online:


"Nei prossimi mesi qui, in pianura padana, lungo l'asse del Po o lungo l'asse della via Emilia, si gioca la partita per essere ancora il secondo paese manifatturiero d'Europa".


Di passaggio, segnalo anche un articolo di Maggiani sul "Secolo XIX". In genere gli interventi di politica e varia umanità degli scrittori (intesi nel senso di "autori di romanzi e racconti") non mi dicono nulla. E' probabilmente finita da tempo l'epoca in cui lo scrittore in quanto tale aveva qualcosa da dire. Gli articoli di Maggiani, e degli altri, in genere contengono banalità, quasi sempre banalità di sinistra. L'articolo citato è interessante perché mostra che perfino nella testa del medio intellettuale di sinistra comincia a insinuarsi l'idea che davvero non se ne può più. Alla fine, certo, Maggiani deve tranquillizzare il suo lettore di sinistra assicurandolo che non vota per Grillo. Comunque il segnale è interessante.
(M.B.)

giovedì 6 febbraio 2014

Toni Negri sulle elezioni europee.

Toni Negri non ha mancato di far sentire la sua voce a proposito delle prossime elezioni europee, in un articolo scritto assieme a Sandro Mezzadra. Si tratta di un testo interessante. Da tempo sono convinto che uno dei compiti ineludibili per chi si sforza di combattere il capitalismo realmente esistente è quello della critica al ceto intellettuale di sinistra, che appare ormai del tutto incapace di portare contributi alla comprensione critica della realtà. Ci sono ovviamente delle eccezioni, ma l'articolo di cui parliamo non è fra queste. La tesi ivi sostenuta è molto semplice: l'attuale configurazione dell'UE agli autori non piace,  ma essi rifiutano la prospettiva del ritorno alle sovranità nazionali, quindi la proposta è quella di contestare le attuali politiche europee rimanendo dentro euro e UE. Nulla di nuovo, nulla di particolarmente diverso da quanto potrebbe dire un qualsiasi esponente del PD. Quello che colpisce, da parte di un intellettuale prestigioso come Toni Negri, è la totale mancanza di argomenti. Se si legge con attenzione il testo, si scopre facilmente che esso elude tutte le questioni fondamentali che vengono discusse, in questo blog e altrove, in relazione a tali problemi: nessun accenno alle discussioni economiche relative alla moneta unica (teoria della aree valutarie ottimali, sbilanci commerciali indotti dai differenziali di inflazione, ciclo di Frenkel e così via), nessuna parola sulle prospettive concrete di una lotta antisistemica al livello europeo (mancanza di un “popolo europeo”). Al posto di una discussione, anche sommaria, ma argomentata, dei problemi reali, vi è una ripetizione continua della stessa idea, cioè che non si può tornare alle sovranità nazionali. Perché, non è dato saperlo.

martedì 4 febbraio 2014

Antifascismo onirico

Abbiamo già detto degli scontri parlamentari sul decreto governativo Bankitalia. Ribadisco l'apprezzamento per il comportamento del M5S, che si sta conquistando sul campo il titolo di unica opposizione allo sfascio e alla vergogna del ceto politico e dirigente italiano. Ma vogliamo qui tornare su un episodio particolare, quello dei deputati PD e SEL che cantano “Bella ciao” per difendere il diritto delle banche italiane a ricevere soldi dallo Stato. È ovvia e naturale la domanda “ma come è possibile?”
È possibile, evidentemente, perché gli elettori di PD e SEL ritengono normale e sensata una cosa del genere. E questo come è possibile? A questa domanda c'è una risposta generale, e verte sull'abbassamento del livello intellettuale del nostro paese, o forse dell'intero Occidente. Ma c'è una risposta più specifica, che mette in causa la nozione di antifascismo. Di questo si è accorto anche un osservatore acuto come Stefano Azzarà. Quanto dirò qui in breve l'ho sviluppato assieme al compianto Massimo Bontempelli in uno scritto di qualche tempo fa, al quale rimando per approfondimenti. Il punto della questione è molto semplice: l'antifascismo come posizione politica ha senso se esiste un fascismo da contrastare. Ma il fascismo è stato sconfitto nel '45, e da allora in sostanza non esiste come forza politica rilevante. La sinistra ha però trovato utile agitare il fantasma del fascismo come strumento per screditare i propri avversari. Che venga usato adesso per attaccare il M5S non è dunque un'assurdità ma lo sviluppo di quanto fatto da decenni.  Naturalmente, per usare l'antifascismo in questo modo è stato necessario fare della parola “fascismo” un contenitore vuoto, da riempire volta per volta con i contenuti più convenienti, cioè appunto con l'avversario politico di turno. Questa dinamica si è giustapposta negli ultimi decenni alla involuzione della sinistra che si è fatta strumento dell'attuale capitalismo regressivo e de-emancipatorio. Il risultato è quello che si vede: un ripugnante ceto politico che mentre dà il suo attivo contributo alla distruzione del nostro paese e alla cancellazione di diritti e redditi dei ceti subalterni,  si inventa un fascismo immaginario per poter vivere oniricamente la propria azione politica come “antifascista”.
Non credo che ci sia possibilità di "recuperare" l'antifascismo, se non sul piano dell'ispirazione ideale. Sul piano politico, pensare oggi in termini di fascismo/antifascismo significa abbandonare la realtà ed entrare in una dimensione onirica nella quale la sconfitta della razionalità è certa, e non c'è difesa contro le affabulazioni insieme deliranti e ciniche di Vendola, compagne e compagni.
(M.B.)


Addendum 6-2: un articolo di Diego Fusaro, che dice cose molto simili




lunedì 3 febbraio 2014

"Questa politica presenta però limiti e risvolti negativi"

E ce ne eravamo accorti...

Riprendiamo da "Voci dall'estero" la segnalazione di un comunicato stampa della Commissione Europea che ripete tutte le cose che i lettori del nostro blog (e di "Voci dall'estero", appunto, e di "Goofynomics", e di tanti altri) sanno già benissimo. I passi rilevanti sono i seguenti:

"I divari macroeconomici, sociali e occupazionali tuttora crescenti minacciano gli obiettivi fondamentali dell'Unione sanciti dai trattati, ossia vantaggi generalizzati attraverso la promozione della convergenza economica e miglioramento della vita dei cittadini negli Stati membri. Il rapporto 2013 dimostra come le basi dei divari attuali siano state poste nel corso dei primi anni di introduzione dell'euro, giacché in alcuni Stati membri una crescita squilibrata, fondata sull'aumento del debito alimentato da bassi tassi di interesse e su massicci afflussi di capitale, è stata spesso associata a un andamento deludente della produttività e della competitività.
Venuta meno la possibilità di svalutare la moneta, i paesi della zona euro che tentano di recuperare competitività sul versante dei costi devono ricorrere alla "svalutazione interna" (contenimento di prezzi e salari). Questa politica presenta però limiti e risvolti negativi, non da ultimo in termini di un aumento della disoccupazione e del disagio sociale e la sua efficacia dipende da molti fattori come il grado di apertura dell'economia, la vivacità della domanda esterna e l'esistenza di politiche e di investimenti che promuovano la competitività non di prezzo."

Dovrebbe ormai essere evidente a tutti che questi sono i temi, quando si parla di "Europa" e della sua crisi. Chi li elude, non ha nessuna possibilità di capire la situazione né di modificarla.

(M.B.)

domenica 2 febbraio 2014

Sinistra Ecologia Archinà

Credo che dovremmo essere tutti grati e ammirati della lotta in cui il M5S ha ingaggiato le istituzioni del regime. Sto parlando ovviamente dell'ostruzionismo contro l'infame decreto Imu-Bankitalia, che doveva a tutti i costi essere ratificato dal ceto politico, per le ragioni qui esposte. Alla luminosità dell'audacia e della compattezza dei 5 Stelle fa ombra la tetraggine della "Casta". Il triste spettacolo della "ghigliottina", e le reazioni inviperite contro chi fa notare che, solitamente, chi aziona tale strumento prende il nome di boia; la morte dell'antifascismo, o meglio dell'antifascismo "di maniera" di cui fanno pieno uso gli appartenenti al centrosinistra; uso della violenza fisica in aula, e la sua successiva giustificazione. E dato che i  tempi foschi che abitiamo non si sono originati oggi, né ieri, è bene collocare queste ultime aberrazioni all'interno della ricca galleria degli orrori da noi percorsa negli ultimi anni: cosa che fa magistralmente Angelo D'Orsi.

Quest'ultimo pezzo ci permette di ricollegarci ad un altro tema: al fatto che il M5S sta facendo, giorno per giorno, ciò che dovrebbe essere fatto dalla Sinistra;  e che la Sinistra, invece di fare le cose che dovrebbe fare, aggredisce il M5S.
In tutto questo un ruolo di avanguardia è assunto dal partitino di Vendola e Boldrini. In questa formazione sono riassunti tutti i caratteri deteriori del fenomeno della "sinistra radicale" degli ultimi vent'anni, in particolare la totale separazione tra parole e fatti. Non è una forza politica da sottovalutare, nonostante la sua inconsistenza elettorale: ricordiamo che è proprio grazie ai voti di Vendola che il PD può vantare il triplo dei deputati del M5S, nonostante queste due liste abbiano ottenuto un numero di voti pressoché eguale. E ricordiamo che è proprio sulle risorse di quel partito che contano i "saggi" del Gruppo L'Espresso per presentare la famigerata Lista Tsipras, il cui intento è proprio quello di sottrarre voti al M5S. Il partito che ha consentito che si regalassero miliardi alle spregiudicate banche italiane proporrà una candidatura di lotta all'"Europa delle banche". Ricordiamocelo. (C.M.)