domenica 30 marzo 2014

A Tale of Two Cities

Lo Stretto di Sicilia è uno dei luoghi più belli del Mediterraneo. Un'autentica meraviglia. Sulle due sponde sorgono due importanti città, Reggio Calabria e Messina, così speculari e vicine che qualcuno suggerisce di unirle in un'unica città metropolitana. Si dice che tra messinesi e riggitani non sia mai corso buon sangue. In realtà, le due città hanno molto in comune. Per esempio l'essere state governate, fino a ieri, da due probabili delinquenti.

L'ex sindaco di Messina, Francantonio Genovese, è accusato di associazione per delinquere finalizzata alla perpetrazione di peculato e truffa aggaravata ai danno dello Stato. Qui i dettagli. Il galantuomo, fra le altre cose, avrebbe sostanzialmente "privatizzato" il servizio di formazione professionale nella sua società, trasformandolo in suo affare personale. Notevole l'impiego dei giovani formandi come massa di manovra per stravincere le primarie locali: pare che addirittura uno dei seggi di tali primarie, nel 2012, sia stato aperto direttamente all'interno di un centro di formazione. Genovese è attualmente deputato, ed è in calendario l'autorizzazione a procedere per il suo arresto.

Genovese proviene dalla DC. È stato nella Margherita;  ora è del PD. Ha legami con Renzi.

L'ex sindaco di Reggio, Giuseppe Scopelliti, è stato condannato in primo grado per abuso d'ufficio e falso in atto pubblico. Qui i dettagli. Il galantuomo avrebbe dato incarico ad un altro soggetto, Orsola Fallara, di alterare i bilanci del comune, in modo da nascondere la voragine dei debiti creati dall'amministrazione. Fallara si è suicidata nel 2010, quando la verità cominciò a venire a galla; si è trattato di un buco di quasi 50 milioni di euro. Scopelliti ha sempre stravinto a Reggio; non a caso, dopo l'esperienza da sindaco, ha conquistato la carica di presidente di regione. Ora si è dimesso,  ma pensa di candidarsi alle europee.

Scopelliti proviene dal MSI. È stato in AN e nel PDL; ora è nel NCD di Alfano.

Un breve tratto di mare divide Reggio da Messina; deboli necessità mediatiche dividono la "destra" dalla "sinistra" in questo paese. I casi che abbiamo appena menzionato chiariscono cosa si intenda per bipolarismo in Italia.
Un'ultima cosa. Si è fatta strada, negli ultimi tempi, l'idea per cui sia necessario relativizzare questi episodi. In altre parole: la corruzione è un problema secondario. Il vero problema è l'euro; dacché segue che il problema della legalità è più che altro uno specchietto per le allodole, un modo per distrarre dalle questioni di fondo.
Questo modo di vedere le cose è singolarmente miope. Maastricht e il Fiscal Compact sono stati votati da gente come Genovese e Scopelliti. Noi siamo nell'euro grazie a tali soggetti. Il ceto politico, che è l'autore delle "riforme" e dell'austerità, ha le sue basi elettorali in contesti come quelli sopra descritti. Tutto si tiene.
Per liberarci dell'austerità, come per liberarci della corruzione, così come per liberarci dell'euro, volendo, c'è un unica strada: spazzare via gli Scopelliti e i Genovese. A Messina come a Reggio. (C.M.)

venerdì 28 marzo 2014

Ancora sul voto

Il post sul voto ha suscitato un certo dibattito fra i nostri lettori. Volevo provare qui a rispondere a coloro che criticano la possibilità di votare per il M5S in base al fatto che esso non ha una linea politica chiara, in particolare proprio su euro e UE, e preferiscono quindi il voto alla Lega o a Fratelli d'Italia. Il punto che mi separa da queste opinioni è, io credo, una diversa valutazione dell'essenza del ceto politico italiano. E la mia opinione in proposito è che si tratta di un ceto totalmente corrotto e totalmente menzognero. Si tratta di due punti importanti. Dire che si tratta di un ceto politico di mentitori vuol dire in sostanza che per essi le parole dette e gli impegni presi non hanno nessun valore: ogni dichiarazione, ogni presa di posizione è semplicemente uno strumento nella lotta per accaparrarsi fette di potere che si traducono poi in affari e clientele. Per cui, semplicemente, ritengo  che non si possa credere mai a nessun loro impegno. Se potessi credere alle parole dei politici, allora in questi anni avrei votato per qualcuna delle formazione di sinistra radicale, che spesso, a parole, prendono posizioni sulle quali concordo (non sull'euro, questo è vero). Ma non l'ho più fatto da parecchio tempo in qua, perché l'esperienza mi ha dimostrato che quelle parole non sono nulla, non hanno nessun peso e nessun valore di fronte all'unica cosa che veramente ha contato, per la sinistra radicale, negli ultimi decenni, cioè l'alleanza col  centrosinistra per guadagnarsi qualche spazio remunerato nelle istituzioni. Il simbolo di questa politica pseudoradicale ce l'ho ben chiaro in testa: è il Partito dei Comunisti Italiani che nel '99, al tempo dell'aggressione alla Jugoslavia, faceva parte del governo che mandava gli aerei italiani a bombardare la Jugoslavia agli ordini della NATO e contemporaneamente protestava contro la guerra e contro la NATO. “Ho visto cose che voi umani eccecc”. Ecco, dopo aver visto queste cose mi è difficile credere a una sola parola che venga dal ceto politico della sinistra radicale, e non vedo perché a destra le cose debbano essere differenti. Insomma, per tornare all'argomento, anche le posizioni antieuro della Lega mi sembra che  abbiano un carattere strumentale, che siano un modo per guadagnare voti intercettando i sentimenti antieuro che si stanno diffondendo. Voti con i quali poi contrattare qualche poltrona in più col resto del centrodestra. Naturalmente mi fa piacere che in questo modo le tematiche anti-euro abbiano maggiore risonanza e visibilità, ma di qui a credere che vi sia nella Lega una autentica volontà di fare una battaglia politica intransigente su questo tema, ce ne corre.
Ma i politici italiani non sono solo menzogneri. Sono anche corrotti. E questo è importante, ma non perché la corruzione sia il principale problema della nostra economia. Non mi interessa discutere qui della rilevanza economica del fenomeno della corruzione, perché il punto che voglio sottolineare è un altro. Il problema è che questo paese potrà salvarsi solo attraverso una autentica lotta di liberazione nazionale che riconquisti indipendenza e democrazia contro le potenti forze, interne ed esterne, che ce le hanno confiscate. Si tratta di una lotta dura, difficile, che costerà cara. Ma come si può pensare che una simile lotta venga condotta dai corrotti? I corrotti si faranno corrompere, è il loro mestiere. I corrotti accetteranno qualsiasi compromesso, svenderanno qualsiasi cosa, qualsiasi ideale, qualsiasi alleato, pur di salvare le loro rendite e le loro posizioni. E' esattamente quello che hanno fatto finora. Mi sembra evidente che non c'è alternativa: occorre spazzare via l'intero ceto politico italiano, perché una classe dirigente all'altezza della lotta necessaria possa riprendere in mano lo Stato e ricostruire il paese nell'indipendenza e nella democrazia. Questo è possibile solo con la rottura netta e intransigente nei confronti dell'attuale ceto politico, in tutte le sue componenti e con tutti i suoi annessi e connessi. Se non si capisce questo, cioè il fatto che l'intero ceto politico è il nemico, qui ed ora, non si può nemmeno impostare la lotta. L'unica realtà significativa che capisca questa necessità mi sembra il M5S, per questo ribadisco la mia convinzione che l'unica scelta possibile oggi è fra l'astensione e il voto al M5S.
(M.B.)

lunedì 24 marzo 2014

Qualcuno si stupisce?

Non si sa esattamente come commentare il voto "municipale" francese. Il vero vincitore della giornata, l'UMP, non è però il protagonista dell'evento politico che si è consumato in questi giorni. I protagonisti reali sono il Partito Socialista e Marine Le Pen. Ci si chiede se sia più notevole la vittoria dell'una o la disfatta dell'altro. La sconfitta di quest'ultimo è infatti impressionante, e trascina con sé tutta la multiforme sinistra francese. I socialisti, con un'opportuna alleanza con i Verdi, riusciranno probabilmente a conservare il governo di Parigi.
Ma Parigi non è la Francia. Nella provincia francese la sinistra perde ovunque. E spesso la sua disfatta coincide con la crescita dei gruppi di Le Pen. In particolare a Marsiglia e nel Sud la sconfitta è rovinosa: sugli otto arrondissement in cui si divede la metropoli portuale, uno è stato conquistato al primo turno dal UMP, in due il ballottaggio è tra UMP e PS, e il primo è in vantaggio, mentre in quattro il ballottaggio è tra Fronte Nazione e UMP. Solo in un settore cittadino si registra un vantaggio del PS; ma la somma dei voti delle destre è ben maggiore rispetto ai suffragi del partito di Hollande. Quest'ultimo fenomeno è una costante dei risultati elettorali, in ogni angolo del paese. Ci sono molti casi di vittoria al primo turno del UMP, come Bordeaux, Le Havre, Nizza, Orleans, Tolone, Amiens (e negli ultimi quattro casi il secondo classificato èil FN, non il PS). Ma anche nei luoghi dove il PS è competitivo, come a Lione, Lille, Dieppe o Rouen, è probabilissimo che i voti delle destre si sommino al secondo turno, determinando la sconfitta del partito di governo. Sono pochi i casi in cui è plausibile che la sinistra prevalga al ballottaggio, ed è significativo che dove ciò accade (Tolosa, Nantes e Montpellier)  è perché è fortemente radicato il partito ecologista. Ma la regola, in quasi tutti i territori, è la prevalenza dell'UMP. Persino nelle roccaforti di Arras, Brest, Lens, La Rochelle, il PS non riesce a vincere al primo turno.
Insomma, una catastrofe. Il paese ha divorziato dal governo.  Ed è probabile che il voto francese vada letto come un voto anti-Hollande, più che anti-euro: altrimenti non si spiegherebbe la messe di consensi guadagnata da un partito ultra-europeista come l'UMP. Semplicemente, Hollande ha fallito. E il suo partito non riesce ad attirare fiducia e mobilitazione, strappandoli ad una astensione dilagante (in queste elezioni il non voto nella fascia tra i 18 e 24 anni ha superato il 60%).
Ciò non significa che il partito anti-euro per eccellenza non abbia raccolto un grande successo. Anzi, un successo molto più grande di quel che appare. Marine Le Pen ha schierato 600 candidati nei 36000 comuni nei quali si votava (in molti dei quali si è presentato un unico candidato, eletto con la totalità dei voti). Concentrandoci solo sulle realtà più importanti, vediamo che il FN ha conquistato la maggioranza relativa ad Avignone, a Perpignano, a Frejus, in gran parte dell'Alta Savoia. I dirigenti del PS hanno immediatamente proposto a quelli dell'UMP di fare fronte comune per impedire che il FN  prevalga al ballottaggio, e questi hanno risposto picche (segnale molto importante); il che significa che queste importanti città (insieme ad alcuni altri centri minori) saranno con tutta probabilità amministrati dagli esponenti del gruppo di Le Pen. Qualcuno potrebbe commentare: perché la vittoria in una percentuale piccolissima dei 36000 comuni francesi dovrebbe rappresentare un grande trionfo? Per la stessa ragione per cui anche le municipali del 1995 furono considerate come una vittoria del Fronte; eppure in quel caso Le Pen conquistò solo tre sindaci. Il fatto è che, fino a ieri, il FN godeva di un radicamento territoriale scarsissimo. Il sostegno all'estrema destra è sempre stato visto come un voto d'opinione, da esprimere preferibilmente alle elezioni presidenziali. Il 18% conquistato da Marine Le Pen alle elezioni presidenziali non era un evento rivoluzionario nella vita politica francese: suo padre nel 2002 era arrivato al ballottaggio con il 17. Ma i francesi che votavano il candidato presidente FN, fino a ieri, non ripetevano la stessa scelta nemmeno per elezioni legislative. Questo fenomeno, insieme alla sostanziale chiusura del sistema politico francese (determinata in primo luogo dalla legge elettorale maggioritaria), ha per anni fatto sì che il Fronte godesse di una rappresentanza parlamentare assolutamente trascurabile; e il discorso si ripeteva, moltiplicato, per le elezioni per gli enti locali. Tanto per fare un paragone, alle ultime elezioni municipali del 2008 (in Francia la carica di sindaco dura 6 anni) Marine Le Pen presentò metà delle liste rispetto ad oggi, e non riuscì a eleggere nemmeno un sindaco
Un successo oltre ogni aspettativa, dunque. La sinistra dell'euro è riuscita nell'intento di dare al FN un vero radicamento territoriale. Ora si può dire che Le Pen dispone di basi più solide per conquistare il governo del paese. Complimenti. (C.M.)

La Costituzione di Renzi


Prima chiave di lettura
Qualche giorno fa Mario Monti si è espresso contro l'abolizione tout court del Senato. “È bene che rimanga una camera di controllo”, ha detto l'ex Premier, “che freni le iniziative della Camera dei Deputati, sempre condizionata da esigenze di breve termine”. Tradotto: la Camera è troppo influenzata dalle assurde pretese degli elettori. Siccome questi non conoscono il proprio bene, è meglio che i rappresentanti dei cittadini siano affiancati da un'assemblea di saggi tutori, che conoscono l'importanza del lungo periodo. Monti ha voluto fare un paragone con la Camera dei Lords. Non è così peregrino: i Lords sono nominati dalla Corona, e effettivamente svolgono un ruolo di monitoraggio nei confronti dei Commons, i rappresentanti dei cittadini. Ecco il fondamento logico del bicameralismo differenziale: è essenziale che una delle due camere non debba rispondere ai cittadini, altrimenti sarebbe vanificata la funzione di controllo: se i membri di questa camera dovessero rispondere dei loro atti davanti agli elettori, essi fatalmente ricadrebbero preda delle esigenze di breve periodo.

Seconda chiave di lettura
Matteo Renzi perora il superamento del bicameralismo paritario adducendo ragioni di efficienza. Nella navette tra Camera e Senato, infatti, si perderebbe troppo tempo, subendo i vari disegni di legge troppe modifiche-contromodifiche-veti incrociati e via dicendo. Il Senato, inutile doppione della Camera costituirebbe solo una palla al piede.
Questa rappresentazione è falsa per vari motivi. Come molti hanno già fatto notare, le leggi a cui il ceto politico tiene davvero vengono approvate in tempi rapidissimi, nonostante il bicameralismo (è stato fatto l'esempio del Lodo Alfano; si sarebbero potuti fare quelli delle ratifiche al Trattato di Lisbona e al Fiscal Compact). Dunque è in primo luogo questione di volontà politica. Inoltre, va considerato il ruolo di ponderazione della suddetta navette. L'approvazione di un provvedimento in una camera dà luogo a certe reazioni nell'ambito della società civile; ed è alla luce di queste reazioni che l'altra camera può deliberare in maggiore armonia rispetto alle istanze dei cittadini. Ma se l'intento del ceto politico è proprio quello di costruire un sistema che sia impermeabile a tali istanze, allora l'abolizione del bicameralismo perfetto è sensata.

La riforma

Il testo che tra non molto andrà in discussione procede lungo tre fronti. Il primo e più importante è la trasformazione del Senato in Assemblea delle Autonomie; il secondo è la ricentralizzazione di molte competenze, ora in capo alle Regioni; infine, si introduce una norma che potrebbe rendere ancora più forte il controllo dell'esecutivo sul legislativo. Con ordine:

    1-A) viene inaugurato il bicameralismo differenziato. La nuova Assemblea-composta da 47 membri in luogo degli attuali 320- non ha competenze legislative generali, ad oggi assegnate dall'art. 70 Cost. all'esercizio collettivo dei due rami del Parlamento. Ogni intervento normativo della Camera- leggi ordinarie, leggi delega, leggi di conversione di decreti- andrà trasmesso all'Assemblea, la quale entro un certo termine avrà la facoltà di esprimere un parere sul testo. Nel caso in cui il parere sia favorevole, la legge è senz'altro promulgata; nel caso non lo sia, o contenga delle raccomandazioni di modifica del testo originario, quest'ultimo per divenire legge vigente deve essere riapprovato dalla Camera, eventualmente accogliendo le raccomandazioni. Qualora gli interventi normativi riguardino particolari materie che coinvolgono aspetti cardinali degli ordinamenti locali e delle regioni, quali l'autonomia tributaria e di spesa o il sistema istitutuzionale e elettorale, la maggioranza necessaria alla Camera per superare il parere contrario (o emendatorio) dell'Assemblea è quella assoluta dei componenti. Balza subito agli occhi che l'intento semplificatorio della riforma viene a dipendere dalla solerzia e dall'orientamento politico dei membri dell'Assemblea. Se questi decidessero di esprimere un parere su buona parte dei testi legislativi, e se tali votazioni avessero frequentamente esito negativo, allora la procedura legislativa che conosciamo passerebbe da due scrutini (voto della Camera, voto del Senato) a tre scrutini (voto della Camera, parere ostativo dell'Assemblea, voto finale della Camera); e per certe materie avremmo persino una procedura rafforzata (voto finale con maggioranza assoluta). In altre parole, l'efficienza e lo snellimento della procedura legislativa vengono a dipendere dall'atteggiamento politico dei membri dell'Assemblea: se esso contrasta con quello prevalente nella Camera (e cioè con quello del Governo, come vedremo) allora i tempi della nostra procedura legislativa si allungheranno rispetto a quelli correnti. Se così stanno le cose, è evidente che il cambiamento impresso dalla riforma è più apparente che reale: anche oggi i tempi di approvazione di una legge dipendono, in buona sostanza, dall'atteggiamento delle forze politiche presenti in Senato. Si dirà: almeno la nuova Assemblea perderà il potere di iniziativa legislativa. È vero fino a un certo punto: ai sensi del nuovo art. 71, l'Assemblea avrà il potere di chiedere alla Camera di pronunciarsi su un determinato testo di legge; pronuncia che dovrà aver luogo entro sei mesi dalla richiesta.

    1-B) Un elemento di grande novità è invece quello che riguarda le modalità di elezione dei membri dell'Assemblea. Si passa dall'attuale suffragio diretto al suffragio indiretto. Dei 147 membri della Assemblea, 21 saranno i presidenti di ciascuna regione e provincia autonoma; 42 saranno delegati dei consigli regionali, in ragione di due per consiglio; 63 saranno i sindaci eletti dalle assemblee regionali dei comuni, in ragione di tre per regione. A questa schiera di rappresentanti degli enti locali si aggiungeranno 21 personalità selezionate dal Presidente della Repubblica per altissimi meriti. Il mandato di questi ultimi soggetti sarà di sette anni; quello dei sindaci di cinque; quello dei rappresentanti delle regioni coinciderà con il termine delle varie legislature regionali.
    A questo punto vale la pena ricordare un fatto. Tra il 2011 e il 2012 il Governo Monti, con due Decreti Legge, rivoluzionò le Province, e istituì le Città Metropolitane. Tra i punti salienti della riforma vi era il suffragio indiretto per gli organi di questi enti: il Presidente della Provincia sarebbe stato scelto all'interno di un consiglio di delegati dei comuni, il Sindaco Metropolitano sarebbe stato il sindaco del comune capoluogo. I Decreti sono stati dichiarati incostituzionali dalla Consulta. Ma è attualmente all'esame del Senato il Ddl. Delrio, che sostanzialmente riproduce i caratteri dell'intervento di Monti. Questo ci dice due cose. In primo luogo non è vero, come sbandiera Renzi, che assisteremo all'abolizione delle Province: esse continueranno ad esistere, ma non saranno più menzionate in Costituzione (come è oggi per le comunità montane, ad esempio). In secondo e più importante luogo: i governi degli ultimi anni ci hanno preso gusto con le elezioni di secondo grado. Il modello Province viene qui riprodotto per l'Assemblea delle Autonomie. Ma se è già difficilissimo controllare e responsabilizzare i delegati eletti direttamente dai cittadini, figuriamoci come lo è nei confronti di delegati di delegati. Non si abolisce dunque il Senato, come non si aboliscono le Province: nell'uno e nell'altro caso ci si limita a svalutarne la legittimazione democratica. Infine segnaliamo un dettaglio. La partecipazione all'Assemblea, nel nuovo testo, non dà luogo a indennità. I rappresentanti degli enti locali dovranno lavorare gratis. Questo fa il paio con quanto prevede il Ddl. Delrio a proposito di Province e Città Metropolitane: gli organi di entrambi gli enti non percepiranno alcun compenso. Penso sia un dettaglio rivelatore della concezione dell'attività politica propria del Governo Renzi.
    1-C) Si può sostenere che la svalutazione del carattere democratico dell'Assemblea sia compensato dalla limitazione delle sue prerogative nell'ambito della funzione legislativa: a minore legittimazione elettorale corrisponde un ridimensionamento della responsabilità politica. Tuttavia, si deve tenere conto del fatto che la procedura legislativa per le leggi costituzionali e di revisione costituzionale rimane invariata con la riforma: sarà sempre necessaria la doppia lettura del testo in entrambi i rami del parlamento. Per quanto riguarda questo importantissimo settore dell'attività legislativa sopravvive il bicameralismo perfetto, dunque, e soggetti non eletti potranno votare sulla Costituzione. Non solo: il Presidente della Repubblica continuerà a essere eletto da entrambi i rami del Parlamento, convocati in seduta comune; inoltre l'Assemblea contribuirà all'elezione della quota dei membri della Corte Costituzionale che spetta al potere legislativo (cinque su quindici). Infine secondo il nuovo testo l'Assemblea “partecipa alle decisioni dirette alla formazione e all’attuazione degli atti normativi dell’Unione europea ”, e vota la ratifica dei trattati facenti parte dell'ordinamento europeo. Non è poco, per dei delegati di delegati.

    2) La riforma del Titolo V del 2001 si era concentrata soprattutto sulla revisione dell'art. 117, che dopo l'intervento risultò profondamente mutato. Anche la riforma di Renzi riscrive ampiamente questa disposizione costituzionale. La riforma del 2001 era imperniata attorno a tre tipi di competenza legislativa: esclusiva dello Stato, per alcune fondamentali materie espressamente nominate; concorrente con le regioni, per un ampio catalogo di materie intermedie; esclusiva delle regioni, in tutti gli ambiti non direttamente menzionati dalla Costituzione. Il punto dolente della riforma erano le materie di competenza concorrente: in esse lo Stato centrale avrebbe dovuto dettare i principi generali, lasciando la normativa di dettaglio alla discrezionalità regionale. Cosa sia principio e cosa sia dettaglio è ovviamente questione di opinioni. L'indeterminatezza del testo di riforma pose le condizioni per il divampare di un acceso contenzioso tra Stato e Regioni, che la Corte Costituzionale ha dovuto definire con innumerevoli pronunce. Il nuovo testo elimina del tutto il criterio della competenza concorrente: prende dal ricco catalogo delle materie da essa coinvolte alcuni settori strategici (urbanistica, governo del territorio, infrastrutture, produzione energetica, e così via) e li conferisce alla competenza esclusiva dello Stato; tutte le materie che non sono più espressamente nominate ricadono nella competenza delle Regioni. Tuttavia l'esercizio della stessa dovrà essere subordinato, ai sensi del nuovo testo, alla “salvaguardia dell'interesse nazionale”; interesse che, insieme alle “esigenze di tutela dell'unità giuridica ed economica della Repubblica”, giustifica l'intervento legislativo dello Stato anche nelle materie che non sono ad esso riservate. A seconda dei contesti e delle necessità, l'ingerenza statale potrà espandersi liberamente, e sarà difficilmente sarà arginabile. Assistiamo pertanto ad un deciso movimento centripeto nella distribuzione della potestà legislative tra i vari livelli dell'organizzazione territoriale della Repubblica, movimento speculare a quello centrifuga che ha caratterizzato i primi anni del secolo.
    Avevamo già parlato di questa tendenza. Gli enti locali dovrebbero essere compensati di tale “spossessamento” di competenze con la partecipazione diretta alla funzione legislativa dello Stato, nei termini sopra descritti. In sostanza, viene sottratto potere politico ai rappresentanti regionali eletti direttamente dai cittadini per trasferirlo ai membri dell'Assemblea. 

    3) La nuova Assemblea non dovrà esprimere un voto di fiducia al Governo, né potrà sfiduciarlo. Il legame fiduciario tra l'esecutivo e il legislativo sarà completamente basato sul voto della Camera. A prima vista, il quadro che sembra delinearsi è quello di una contrapposizione-bilanciamento lungo la linea centro-periferia: Camera e Governo da una parte, rappresentanti delle autonomie dall'altra. In questo quadro è presumibile che l'indentificazione tra Camera e Governo sarò pressoché totale. Ciò è favorito dall'impianto iper-maggioritario della legge elettorale Renzi-Berlusconi; ed è confermato da quello che dovrebbe il nuovo sesto comma dell'art. 72. Vale la pena riportarlo per intero: Il Governo può chiedere alla Camera dei deputati di deliberare che un disegno di legge sia iscritto con priorità all’ordine del giorno e sottoposto alla votazione finale entro sessanta giorni dalla richiesta ovvero entro un termine inferiore determinato in base al regolamento tenuto conto della complessità della materia. Decorso il termine, il testo proposto o accolto dal Governo, su sua richiesta, è posto in votazione, senza modifiche, articolo per articolo e con votazione finale. L'esecutivo avrà così facoltà di incidere sui tempi di elaborazione della Camera, di modificarne il calendario, e soprattutto di privarla della capacità di emendare i testi dei disegni di legge. Questa norma apre la possibilità di una subordinazione totale e definitiva del legislativo rispetto all'esecutivo. Già oggi la maggior parte dei disegni di legge (non contiamo nemmeno i decreti) è di provenienza ministeriale. Da domani il Governo, presentata la propria proposta, potrà metterla in votazione nei tempi da esso determinati, e addirittura limitare a un Sì/No la risposta dei deputati. In tale scenario l'unico contropotere sarà effettivamente rappresentato dall'Assemblea delle autonomie.

La riforma di Renzi riesce a centrare entrambi gli obiettivi delinati in apertura di questo articolo. Da un lato crea un organo di freno e controllo nei confronti dell'istituzione che rappresenta i cittadini, la Camera dei deputati; dall'altro ribadisce e rafforza la subordinazione di quest'ultima all'esecutivo. Esecutivo che vede esaltato il proprio ruolo anche a discapito delle autonomie locali.
Il testo costituzionale vigente afferma che la sovranità appartiene al popolo. Il senso giuridico di questa enunciazione, se si astrae dalla retorica, è che il potere che dovrebbe assumere un ruolo di prevalenza e di centralità nell'ambito del sistema istituzionale è quello legislativo. Il legislativo è il potere che contiene in sé l'espressione della volontà popolare. Questo è il perno della forma di stato repubblicana democratica. La forma di stato repubblicana e post-democratica (o non democratica) non pone al centro il legislativo, ma l'esecutivo. La prevalenza dell'esecutivo è la chiave di lettura fondamentale per comprendere l'evoluzione costituzionale degli ultimi anni. L'intera struttura di governance della UE è concepita per esaltare il ruolo degli esecutivi e deprimere quello dei parlamenti. In Italia, abbiamo assistito all'assalto dell'esecutivo all'indipendenza dell'ordine giudiziario. In tutti i paesi notiamo come il ruolo del legislativo è usurpato dal governo. In Italia la stragrande maggioranza degli interventi normativi sono riconducibili a disegni di legge governativi, Decreti Legislativi, e (soprattutto) Decreti Legge.
La riforma di Renzi può essere riassunta in una frase: il Governo sopra a tutto. (C.M.)

sabato 22 marzo 2014

La "Democrazia sfigurata" è la democrazia tirannica

Nadia Urbinati ha dato alle stampe un voluminoso saggio sulla crisi della democrazia moderna. Si intitola Democrazia sfigurata. Il popolo fra opinione e verità, e il suo contenuto viene discusso qui. Se dobbiamo dar credito alla studiosa di scienze politiche, questo blog ha ancora una volta colto nel segno. Scrivevamo:
La democrazia dei risultati adotta un approccio conseguenzialista, e ritiene legittimo quel governo che riesce a conseguire i propri fini istituzionali. La democrazia delle regole adotta un approccio deontologico, e ritiene legittimo quel governo che nasce ed opera in conformità a norme che consentano ai cittadini di influire sulle grandi scelte politiche. (...)l'operato della BCE, per esempio, può essere considerato rispettoso della democrazia, ma non perché Draghi debba rispondere del proprio operato ai cittadini, bensì in quanto la BCE produce una buona gestione della politica monetaria europea. Questa concezione spesso si accompagna ad un'altra, anch'essa assai diffusa tra gli studiosi: quella del ritorno delle élites. I problemi del mondo moderno sono troppo complessi per essere gestiti da profani. Il ruolo dell'elettore, dunque, è di scegliere il tecnico giusto: anzi, di scegliere i tecnici, evitando di farsi attrarre dalle sirene del populismo.
Sostiene Urbinati, parlando delle caratteristiche delle democrazie contemporanee:
[esiste la] la tendenza «epistemica», in sostanza la depoliticizzazione della democrazia in nome di una conoscenza più o meno scientifica che dovrebbe portare alla scelta giusta: il governo dei tecnici, insomma, fenomeno provato non solo dall’Italia. Anche questo uno «sfigurare» la democrazia delle procedure (...) È il passaggio dal metodo proceduralista puro a quello conseguenzalista.
Urbinati evidentemente si esprime meglio di noi. Ma l'identità di vedute è chiara. Tra le principali caratteristiche (non l'unica: aprite il primo link) della democrazia contemporanea c'è l'assolutizzazione del punto di vista tecnico, rappresentativo di certi interessi particolari, a metro di giudizio oggettivo delle scelte politiche. Con il che la democrazia è svuotata.  Per altri versi ne avevamo già parlato.
È interessante notare (e Urbinati lo fa) come il modello del governo dei tecnici vada a braccetto con quello del governo del Leader (che in italiano significa Duce). Tecnocrazia e plebiscitarismo carismatico: ecco i due corni della realtà politica dei nostri giorni. Due poli che hanno in comune il disprezzo per le regole formali, e badano soltanto ai risultati, scelti in base a criteri che si pretendono oggettivi e neutrali; in una una frase, il disprezzo per democrazia. (C.M.)

Il sogno e la realtà

Ogni giorno ha la sua pena, si sa. Oggi vi segnaliamo questo articolo di Leonardo Mazzei, che ci fornisce qualche informazione, ripresa dalla stampa, sulle presumibili modalità attuative del "Fiscal compact".  Al momento si tratta solo di progetti, ma saperne qualcosa è utile per capire in che direzione intende andare l'UE, quella vera, non quella "diversa" che sognano tanti.

venerdì 21 marzo 2014

mercoledì 19 marzo 2014

Se non li fermiamo, ecco come cambieranno le nostre condizioni di lavoro

di Fabrizio Tringali

Sul blog abbiamo già parlato del jobs-act della Camusso, che a braccetto con Cisl, Uil e Confindustria ha dato il via libera a un accordo epocale, capace di stravolgere le condizioni di vita e di lavoro di tutti noi.
Tra le altre cose:
- Per tutto ciò che concerne la prestazione lavorativa, gli orari e l’organizzazione del lavoro, i Contratti Nazionali di Lavoro potranno essere derogati tramite un semplice accordo RSU-Azienda, senza alcun coinvolgimento dei lavoratori, né dei sindacati territoriali.
- Come in Fiat, le Organizzazione Sindacali che non chineranno la testa di fronte a qualunque pretesa delle parti datoriali, saranno di fatto escluse dalla rappresentanza. Per partecipare alle elezioni delle RSU bisognerà aver sottoscritto il Testo Unico.
- Le organizzazioni sindacali non firmatarie del Ccnl saranno escluse dal diritto delle ore di assemblea di organizzazione, dai permessi non retribuiti e dal diritto di affissione.

La segreteria nazionale della FIOM, nonostante l'enorme contraddizione di aver sostenuto la Camusso al Congresso CGIL (ma perché, Landini? Perchè??), ha opportunamente scelto di lanciare una consultazione democratica fra i lavoratori, non accontentandosi di quella farlocca organizzata dai confederali.
E soprattutto ha preso pubblicamente l'impegno di considerare vincolante il risultato della consultazione, come scritto a chiare lettere sul volantino ufficiale.
Si è quindi aperta una partita davvero importante, il cui esito non è scontato. Infatti, se è vero che non è molto difficile immaginare il risultato delle votazioni (stravince la Camusso in CGIL, vince o stravince Landini in FIOM), non è altrettanto semplice immaginare quel che accadrà dopo.
E' molto importante che si formi un'opinione pubblica consapevole, ben più larga della platea dei metalmeccanici, che supporti l'opposizione al Testo Unico e sostenga la FIOM perché non compia passi indietro.
Costi quel che costi, il Testo Unico sulla Rappresentanza deve finire nella spazzatura.


Al seguente link si trova il periodico della FIOM che tratta la questione: http://www.imec-fiom.it/web/it/component/attachments/download/27

lunedì 17 marzo 2014

Votare?

Apriamo il dibattito, come si suol dire. Che fare alle prossime elezioni europee? Per quanto mi riguarda la scelta è fra l'astensione e il voto al M5S. È probabile che alla fine sceglierò di votare per il Movimento di Grillo. Non mi faccio troppe illusioni. I problemi di democrazia interna, il modo assurdo in cui vengono risolte le discussioni, la mancanza di prese di posizione chiare su tutta una serie di questioni importanti, sono difetti evidenti, che rischiano di portare il movimento alla dissoluzione. Difetti che in questo blog abbiamo discusso già al momento delle scorse elezioni politiche. Inoltre, è noto che il Parlamento europeo ha scarso potere, e che quindi anche un nutrito gruppo di deputati critici verso l'UE avrà poche possibilità di inceppare la macchina che ci schiaccia. Allora perché votare M5S? Perché le recenti vicende hanno mostrato, a me sembra con estrema chiarezza, come il M5S sia, semplicemente, l'unica opposizione che c'è. L'unica realtà di una qualche consistenza che dichiara senza mezzi termini di non voler partecipare al gioco osceno della “politica” attuale, ma di voler rovesciare il tavolo. È questo, a mio avviso, il requisito minimale per poter sperare in un cambiamento reale. La cosa curiosa è che, pur essendo in radicale contrasto con Grillo sul metodo da lui usato nelle recenti espulsioni, sono abbastanza d'accordo sul merito, per quel che ne capisco: mi sembra infatti che il pomo della discordia sia, alla fine, quello di accettare o rifiutare un qualche tipo di alleanza con la sinistra. Cosa che Grillo rifiuta nettamente e alla quale invece sembrano inclinare i vari “dissidenti”. Non c'è dubbio, lo ripeto, che, se così stanno le cose, nel merito ha ragione Grillo: una realtà come il M5S ha senso solo in funzione di una rottura netta e radicale con l'intero mondo della “politica” attuale, mondo che è globalmente coinvolto, in tutte le sue componenti, nell'attacco ai diritti e ai redditi dei ceti subalterni e nella distruzione del nostro paese.
Dare forza a questa posizione di rottura netta mi sembra l'unico modo per creare almeno le condizioni di base per una lotta radicale contro il sistema di potere che ci sta distruggendo. Per tale sistema, un successo del M5S alle elezioni europee rappresenterebbe sicuramente un ostacolo, forse un pericolo. È il miglior argomento a favore del M5S.
(M.B.)

sabato 15 marzo 2014

Tre segnalazioni

1) Mentre tutti sono distratti dal taglio dell'Irpef, evento futuro e incerto, è immediamente operativa la modifica della c.d. acausalità dei contratti a tempo determinato. Nel nostro ordinamento questi contratti possono essere rinnovati per un massimo di 36 mesi; fino a ieri il ricorso alla formula a tempo determinato non poteva essere arbitrario, ma legato ad una giusta causa, la cui allegazione era onere del datore di lavoro: ciò ad eccezione dei primi 12 mesi. Da oggi l'eccezione si tramuta in regola: l'imprenditore non dovrà motivare alcunché. Giova ricordare che la regola sopra richiamata conferiva un preciso diritto al lavoratore, e cioè quello di adire il giudice in modo da ottenere, in difetto di giusta causa, la conversione del contratto da tempo determinato a tempo indeterminato. Oggi quel diritto è cancellato. Con conseguenze facilmente immaginabili.

2) pochi giorni prima che un esponente del mondo delle cooperative rosse infliggesse un colpo formidabile ai diritti dei lavoratori, gli esponenti del mondo dell'accademia economica "di sinistra" si riunivano alla Camera dei Deputati. Ecco un ottimo resoconto di Sergio Cesaratto.

3) Lo storico Aldo Giannuli ha pubblicato un ottimo pezzo sui numerosi e variopinti movimenti di rivolta che hanno accompagnato questi ultimi anni, ai quattro angoli del globo. Di tutti gli spunti che lo scritto offre vorrei riprenderne uno, quello contenuto nei seguenti brani. A proposito dei movimenti di rivolta che fanno arricciare il naso alla "sinistra antimperialista" nostrana Giannuli scrive:

(...) su tutti, l’ombra onnipotente di un qualche servizio segreto come la Cia, il Mossad, l’MI5, lo Sdece ecc (curiosamente, mai servizi segreti diversi da quelli occidentali). Praticamente vanno bene (o quasi) solo quei movimenti a coloritura genericamente di sinistra e ortodossamente non violenti come Ows e gli indignados. In realtà, guardare al Mondo con queste lenti serve solo a precludersi la comprensione di quel che sta accadendo.
La “purezza rivoluzionaria” che molti esigono è un sogno impossibile nelle condizioni storicamente date. E, le lenti del passato (campo imperialista contro campo antimperialista) -già erano abbondantemente fuorvianti a loro tempo- sono solo dei formidabili diversivi buoni a confondere le idee.
A proposito: sarebbe ora di piantarla con questa lagna per cui rivoluzioni sono solo quelle che ci piacciono e che possono iscriversi a pieno titolo nel solco delle rivoluzioni socialiste e democratiche del novecento, mentre tutte le altre sono solo congiure di servizi segreti. Le rivoluzioni possono anche avere un segno che non ci piace o anche, semplicemente, avere aspetti molto criticabili, ma non per questo cessano di avere una loro spontaneità per essere ridotte a puro complotto. Ci sono due atteggiamenti opposti ed ugualmente sbagliati: quello di chi pensa che le rivoluzioni siano sempre e solo movimenti sociali spontanei, nei quali i servizi segreti non c’entrano o, comunque, sono impotenti e quello di chi pensa che i servizi segreti siano pressochè onnipotenti, in grado di suscitare eruzioni sociali che poi guidano a bacchetta. Mitologie: entrambe mitologie.
I servizi segreti non sono in grado di suscitare molto di più che occasionali sommosse, possono finanziare gruppi, supportare eventuali leader ecc, ma un movimento sociale vero e proprio nasce solo se ci sono condizioni precise che lo consentano, a cominciare dall’ esasperazione popolare che non è cosa che si inventi. Può accadere che un tumulto di piazza sia più o meno stimolato da qualche servizio segreto o polizia politica e funga da innesco, ma se sotto non ci sono le polveri da sparo o le polveri non sono abbastanza asciutte, non scoppia niente.

Grassetti e sottolineature mie. Chissà che queste semplici parole non possano essere di giovamento a qualche lettore. (C.M.)

mercoledì 12 marzo 2014

L'Europa si fonda sulla paura

Segnaliamo una ricerca condotta dal Centro Studi Ilvo Diamanti per il quotidiano La Repubblica. Nel sondaggio, 71% degli intervistati ha affermato di non avere alcuna fiducia nell'Unione Europea, a fronte di un 29% di fiduciosi (beati loro). Alla domanda "ma allora bisogna uscire dall'euro?" le proporzioni si invertono: il 32% è favorevole al ritorno alla lira o cose del genere, il 68% vuole rimanere nella moneta unica. 
Il pregio della ricerca di Diamanti sta nell'andare oltre questa superficie contraddittoria (e persino un po' paradossale); lo fa combinando i due risultati, arrivando così a disegnare una "mappa tipologica" degli atteggiamenti degli italiani verso l'Europa.
Dalla combinazione così elaborata, risulta che mentre la metà abbondante (56%) degli italiani ha opinioni molto nette verso euro e UE, dividendosi in favorevoli e contrari in termini radicali, un notevole 44% è critico nei confronti delle istituzioni europee; o, se preferiamo, esprime un favore condizionato. Diamanti li definisce senza giri di parole "euroscettici"; coloro che "sopportano" l'Europa, ma non la amano (né la combattono). Ma cosa tiene separati il gruppo degli anti-euro e quello degli euro-scettici? 
La risposta, a mio avviso, si può trovare in una conclusione di Diamanti:

Gli italiani accettano l’Europa dell’euro per forza. E per paura. Temono, cioè, che uscirne sarebbe pericoloso.
Si può dedurre da questo quadro che ciò divide gli eurocritici dagli anti-euro  è proprio la paura. Molti degli euroscettici saranno anche favorevoli ad un cambiamento delle istituzioni europee (Più Europa, Europa dei Popoli, e via vendolando), ma molto probabilmente attendono questo cambiamento come una specie di miracolo, come il prodotto di una congiunzione astrale; non si rappresentano, cioè, come possibile parte attiva di tale cambiamento. E siccome sono troppo terrorizzati dal muoversi decisamente contro l'Europa, preferiscono l'inazione, l'inerzia. E il quadro politico resta bloccato.
Nella sfida tra pro-euro e anti-euro, questi ultimi vinceranno solo se saranno capaci di liberare la gran massa dei cittadini italiani dalla paura e dal disfattismo. Ecco perché, forse, non sono molto efficaci messaggi come "la fine dell'euro è inevitabile", "dall'euro usciremo comunque", "se non usciamo dall'euro moriremo tutti". Sono tutti messaggi che muovono dal terrore e dall'assunzione che cambiare le cose è impossibile; sono messaggi, se ci fate caso, perfettamente speculari a quelli degli europeisti: uscendo dall'euro si muore, uscire dall'euro è impossibile. Forse sarebbe il caso, invece, di indicare una proposta di futuro possibile. Qualcosa che scaldi i cuori. Qualcosa in cui poter avere, una volta tanto, fiducia. (C.M.)



lunedì 10 marzo 2014

Nel paese di Eutopia

Un tempo Utopia era molto diversa da come la conosciamo oggi. Era un ben strano sistema: al centro di tutto c'era un enorme e affollatissimo parlamento, anzi due parlamenti, che legiferavano su tutto a seconda dell'umore del momento. Dato che nella società di Utopia era diffusa la discordia di opinioni, e dunque la frammentazione in molti partiti, quei due parlamenti erano ostaggio dei ricatti di mille gruppi di interesse. Terribile era l'effetto sui governi, che andavano e venivano in un continuo saliscendi. I due parlamenti eleggevano anche un presidente, che era il capo dello Stato, ma che contava poco o nulla; anzi, quando questi provava a intervenire sulla formazione dei governi, in modo da renderli un po' più stabili e longevi, i parlamenti urlavano immediatamente allo scandalo, al colpo di stato, e dichiaravano l'impeachment.
Il paese era nel caos più completo. Ma poi per fortuna arrivarono gli uomini delle riforme, e furono in grado di tirare fuori gli abitanti di Utopia dal disastro nel quale si erano cacciati.
Il primo atto fu simbolico: il nome dello stato fu cambiato, e si passò da Utopia a Eutopia, che è quello che usiamo ancora oggi.
E poi ci furono le grandi rivoluzioni. Invece di una costituzione fatta di pochi, laconici articoli, che si limitavano a porre dei principi generalissimi, fu approvato un testo molto grande, anzi enorme: centinaia e centinaia di disposizioni, che regolavano nel dettaglio i tanti aspetti della vita del paese. Ciò fu senz'altro opportuno, visto che nei tempi bui i parlamenti, nella vaghezza dei principi generali, facevano quello che volevano.
La nuova costituzione (che prese il nome di Grande Trattato) risolveva in maniera geniale il problema della distribuzione dei poteri. Al centro di tutto vi era il consiglio dei presidenti delle regioni di Eutopia, che infatti prendeva il nome di Gran Consiglio Eutopico. Qui erano riuniti i rappresentanti degli esecutivi regionali. Questo consiglio era ed è importantissimo: è l'unico, per esempio, che può modificare il Grande Trattato, ed è quello che nomina i membri della Corte di Giustizia delle Comunità Eutopiche, la più alta magistratura del paese, l'unica che vigila sul rispetto delle leggi fondamentali. Nei tempi antichi in questi due settori avevano peso enorme i parlamenti; ma ora quei tempi sono passati.
Sempre dalle Regioni provengono i membri del Consiglio delle Regioni. Quando c'è da discutere di economia, tutte le giunte regionali mandano il proprio responsabile economico; e questo vale per tutte le materie. Come vedremo questo organo ha un ruolo fondamentale nella procedura legislativa Eutopica. Mentre nel Gran Consiglio, che è l'organo supremo, i voti dei presidenti di regione valgono tutti allo stesso modo, in questo altro consiglio conta di più chi rappresenta la regione più popolosa. E del resto non si può certo pretendere che il voto della Gerbardia valga quanto quelli della Grelabria o del Moligallo.
I presidenti riuniti nel Gran Consiglio godono di un altro potere: nominano i membri della importantissima Commissione Eutopica. Questi commissari hanno l'incarico di sovrintendere agli interessi generali del paese, e non solo delle singole regioni; tuttavia, non bisogna dimenticare che si tratta di agenti delle varie giunte, e che provengono dalle file dei partiti politici regionali: perciò il compimento imparziale della loro missione riposa del tutto sulla loro specchiata buona fede. Comunque, i commissari, per così dire, sorvegliano l'attività delle singole regioni, pronti a denunciare alla Corte le violazioni del Grande Trattato. L'astuzia del costituente ha così portato alla nascita di un organo che, su incarico delle giunte, può efficacemente disciplinare l'azione dei vari consigli regionali! E così è scongiurata la possibilità che si riproduca l'anarchia e il disordine così tipici dei tempi andati.
Gli eccellentissimi commissari, inoltre, hanno il potere esclusivo di proporre i disegni di legge al Consiglio (e anche all'Assemblea, ahimè: come vedremo meglio tra poco). In questo modo i temi del dibattito politico tra gli organi Eutopici sono sempre introdotti dalla Commissione: è lei che decide di che si parla. E se per caso gli organi a cui la proposta di legge è inviata la approvino, ma riscrivendola, in modo da stravolgerne il senso, la Commissione è in grado di porre il veto sulla sua (ex) creatura.
Dicevamo dell'Assemblea. Quest'organo, pletorico e affollato, deve dare il proprio assenso a ogni disegno di legge, e anzi ha addirittura il potere di non approvare la nomina dei commissari da parte del Gran Consiglio. I piccoli lettori si staranno certamente chiedendo a che serva quest'organo, e se sia giustificato lasciargli tanto potere. Il fatto è che alcune minoranze conservatrici, imbevute di dottrine sorpassate, ma che avevano un certo seguito ai tempi di Utopia, credevano che non ci potesse essere democrazia senza assemblea legislativa, quasi che a rappresentare i veri desideri del popolo non bastassero i presidenti di regione. Per non scontentare nessuno, e anzi guadagnar consenso alla causa dell'Eutopia unita, si è così deciso di concedere l'Assemblea. Ma badate: essa ha poco in comune con i vecchi parlamenti. Non può modificare il Gran Trattato, nel quale sono già ricomprese moltissime norme fondamentali. Non può proporre disegni di legge, come già detto. Intere, fondamentali materie sono al di fuori del suo controllo, come la politica estera e di difesa, oppure quella monetaria. Non può sfiduciare, ovviamente, i membri dei Consigli. Può farlo invece nei confronti dei commissari, ma è un caso rarissimo e sciagurato.
Ecco succintamente descritti i principali organi politici della grande e bella Eutopia. Naturalmente rimane fuori da tale novero la Banca Centrale Eutopica, che certo ha un ruolo decisivo, ma che non fa scelte politiche: essa si muove, come tutti sanno, in base alla Leggi Eterne della Scienza Economica, universalmente valide per tutte, e si preoccupa soltanto della promozione del Bene Comune. A scanso di fraintendimenti, il Presidente della BCE è nominato dal Gran Consiglio.
Siamo arrivati alla fine. È corretto dire che la forma di governo eutopica è la migliore possibile? Certamente lo è nello spirito. Ma resta ancora qualcosa da fare. In particolare, molte competenze (e troppa discrezionalità) vengono ancora lasciate alle regioni. È giusto procedere sulla strada del progressivo accentramento. I retrogradi regionalisti non se ne abbiano a male: nulla davvero sparisce dalle mani dei rappresentanti dei cittadini. Solo che si spostano poteri e responsabilità dai consigli regionali, singolarmente presi, alle giunte regionali, riunite tra loro. Questo è il modo migliore per assumere decisioni vincolanti per tutti con sufficiente ponderazione, attenta riflessione, e -possibilmente- al riparo dal processo elettorale. (C.M.)

sabato 8 marzo 2014

Mezze ammissioni, e una segnalazione

In un articolo sul supplemento di economia del "Corriere" di lunedì 3 marzo ("Euro troppo forte: un pericolo da non ignorare"), che purtroppo non riesco a trovare in rete, Danilo Taino solleva il dubbio che la forza dell'euro non sia esattamente un bene:


"nonostante l'aumento dei tassi di interesse in America, il dollaro resta debole rispetto all'euro; e il recente improvviso deprezzamento del renminbi cinese pone altri problemi di competitività all'economia dell'Eurozona, anche alle esportazioni italiane fuori dal continente. Problema molto serio, la forza dell'euro, nella stagnante Europa."


Così scopriamo che una moneta forte non è sempre un vantaggio. Qualcosa del genere deve averlo detto anche Prodi, ma non ricordo dove. Chi ci segue sa che l'euro rappresenta un problema anche negli scambi interni all'eurozona, ma questo naturalmente né Prodi né Taino arrivano a dirlo.




Cambiando argomento (ma non tanto), approfitto di questo post per segnalare un articolo di Enrico Grazzini, che sostiene l'idea dell'euro come moneta comune, come "eurobancor". Idea della quale abbiamo più volte parlato in questo blog, per esempio qui, qui e qui. Avevamo anche già discusso un intervento di Grazzini in questo senso. La cosa interessante è che l'intervento che segnaliamo oggi è apparso su "Sbilanciamoci", da sempre ostile alle posizioni anti-euro.
(M.B.)

giovedì 6 marzo 2014

Primo "job-act": fine del Contratto Nazionale di Lavoro

di Fabrizio Tringali

Ma forse, chi non segue da vicino le questioni sindacali, non sa che, in attesa delle proposte di Renzi, il primo “job-act” ce lo ha regalato Susanna Camusso firmando a sorpresa, lo scorso 10 Gennaio, un nuovo accordo interconfederale che integra quelli del 28 giugno 2011 e del 31 maggio 2013.
Senza alcuna discussione interna, la segreteria confederale ha dato il via libera ad una serie di regole che, tra le altre cose, permetteranno ad ogni R.S.U. (cioè ai rappresentanti dei lavoratori di ogni singola unità produttiva) di firmare accordi capaci di derogare il Contratto Nazionale di Lavoro, il quale è ovviamente destinato a diventare carta straccia.

Proprio mentre la Commissione Europea richiama l'Italia, per l'ennesima volta, a causa della sua scarsa competitività, le organizzazioni sindacali, compresa la CGIL, dimostrano di aver fatto propria la logica della necessità della svalutazione interna per cui la produttività va aumentata a scapito dei salari. E per colpire questi più facilmente, si aggrediscono le condizioni di lavoro, le tutele, i diritti.

Il fatto diviene ancor più grave se si considera che tutto ciò avviene mentre la CGIL sta svolgendo il suo Congresso Nazionale.

Da più parti è stato chiesto alla Camusso di sospendere le firma e sottoporre l'accordo al voto dei lavoratori. La segretaria si è dapprima rifiutata asserendo che il nuovo accordo non era altro che un “regolamento attuativo” delle intese precedenti. Tale argomentazione non ha retto e la Camusso ha dovuto cedere, riconoscendo che occorre organizzare una consultazione.
Tuttavia le modalità con cui verrà svolto il voto lasciano intendere quale sia il reale livello di democraticità interno alla maggior confederazione sindacale. Per prima cosa non si voterà pro o contro il testo dell'accordo, bensì sul giudizio che il Direttivo della CGIL ne ha dato. Il voto non sarà circoscritto ai lavoratori interessati all'accordo stesso, bensì potrà votare chiunque. Alle assemblee sarà presentato solo il punto di vista della Camusso, non saranno presenti relatori di opinione contraria. Non sono previste commissioni elettorali formate da lavoratori di ambo le parti, quindi non vi sarà alcun tipo di controllo sulla regolarità del voto.
E' chiaro che si tratta di un'enorme presa in giro, cui fortunatamente, per ora, la FIOM si sottrae, organizzando una consultazione maggiormente democratica e credibile.

Il problema è cosa accadrà dopo. Cosa farà la FIOM quando la CGIL pretenderà che tutte le categorie si considerino vincolate dall'accordo, in forza a dati che, ad esclusione del settore metalmeccanico, sembreranno dimostrare adesioni plebiscitarie all'operato della Camusso?  

martedì 4 marzo 2014

La democrazia tirannica

Premessa dei giorni nostri
In una repubblica parlamentare la figura del presidente del consiglio eletto semplicemente non esiste. Tuttavia, questa verità ha che fare con la costituzione formale: la costituzione materiale, da vent'anni a questa parte, è ben diversa. Tutto il discorso politico dell'ultima generazione è improntato al presidenzialismo; e l'ultimo arrivato, Renzi, fino a una settimana fa era il più presidenzialista di tutti. Ecco perché l'avvicendamento Renzi-Letta appare a grandissima parte dell'opinione pubblica come palesemente illegittimo; e la sfacciata incoerenza del neo-premier certo non ne aiuta l'immagine.
Ma i renziani (scusate, i renzini) hanno pronta la risposta. Qualche giorno fa Aldo Cazzullo ha dichiarato "Renzi non sarà giudicato da come sarà andato al governo, ma da cosa avrà fatto una volta al governo". Altri ripetono più o meno questa formula: "anche se ora ci possono essere dei dubbi tra gli italiani, quando faremo le cose giuste ci ringrazieranno". Ora, questo può anche essere vero. Chissà. Ma se portiamo alle estreme conseguenze il ragionamento arriviamo a esiti piuttosto inquietanti.

L'elaborazione antica
I greci annoveravano nel loro lessico politico una parola di origine asiatica, tirannia. Nel contesto in cui era nata, la parola tiranno designava semplicemente un capo; il signore di una città, per la precisione. Molto tempo dopo, tiranno divenne sinonimo di un altro vocabolo greco, despota. Ma in un periodo intermedio tiranno non aveva una connotazione negativa, valutativa, bensì tecnico/analitica. il termine non alludeva alla qualità del governo del soggetto tirannico, bensì al modo in cui questi era arrivato al potere. Se questo modo era in contrasto o in deroga alle regole ordinarie per l'acquisizione delle cariche pubbliche si parlava di tirannia; dopodiché il governo del tiranno poteva anche essere illuminato, saggio, tollerante. Non era nemmeno necessario che la presa del potere fosse violenta; bastava che fosse illegittima, irregolare, al limite irrituale.

L'elaborazione contemporanea
Franco Russo,  molto opportunamente, ha collegato tra loro le modalità di funzionamento dell'attuale governance europea e il concetto di "working" e "output" "democracy", da contrapporre alla "input" o "voting" "democracy". La prima espressione potrebbe tradursi con "democrazia dei risultati"; la seconda con democrazia "della scelta", o "delle regole". Si tratta in realtà di due criteri distinti per valutare la legittimità dell'azione di un governo (in senso lato: vi può rientrare anche il mandato del Presidente della BCE, come vedremo). La democrazia dei risultati adotta un approccio conseguenzialista, e ritiene legittimo quel governo che riesce a conseguire i propri fini istituzionali. La democrazia delle regole adotta un approccio deontologico, e ritiene legittimo quel governo che nasce ed opera in conformità a norme che consentano ai cittadini di influire sulle grandi scelte politiche. Il primo criterio è sostanzialista; il secondo formalista. È agevole notare come il primo dei due criteri schiacci l'elemento della legittimità su quelli dell'efficienza e dell'efficacia. A quanto pare questa concezione è propria di Mario Draghi.

La tirannia democratica
I moderni politologi sembrano avere qualcosa in comune con gli antichi greci: entrambi ammettono che potrebbe rivelarsi "buono" quel governo che si forma in spregio alle regole precostituite. Tuttavia, i moderni politologi (e i politici che leggono i loro libri) fanno qualcosa di più: ritengono che l'approccio conseguenzialista sia quello decisivo, con buona pace di ogni deontologia democratica. Nei casi più estremi affermano senza mezzi termini che la "output democracy" può senz'altro sostituire la "voting democracy": l'operato della BCE, per esempio, può essere considerato rispettoso della democrazia, ma non perché Draghi debba rispondere del proprio operato ai cittadini, bensì in quanto la BCE produce una buona gestione della politica monetaria europea. Questa concezione spesso si accompagna ad un'altra, anch'essa assai diffusa tra gli studiosi: quella del ritorno delle élites. I problemi del mondo moderno sono troppo complessi per essere gestiti da profani. Il ruolo dell'elettore, dunque, è di scegliere il tecnico giusto: anzi, di scegliere i tecnici, evitando di farsi attrarre dalle sirene del populismo.
Queste due concezioni hanno entrambe un piccolo difetto. Non tengono conto del fatto che la bontà di certe scelte politiche e amministrative non è mai in re ipsa: non è mai oggettiva. Dipende dalle valutazioni che quelle scelte susciteranno: le quali saranno condizionate dalle opinioni, dalle ideologie, dagli interessi (sopratutto)... Ecco perché le regole formali sono importanti: servono a istutuzionalizzare il confronto pacifico tra idee e interessi diversi. In poche parole, se un governo fa scelte buone o cattive lo decidono gli elettori, che sanno da sé stessi qual è il loro bene. E se gli elettori sono tanto intelligenti da riuscire a distinguere tra scelte buone e scelte cattive, così come tra personale adeguato o inadeguato, allora non si capisce perché non dovrebbero essere in grado di gestire la cosa pubblica da loro stessi, senza ricorrere ai tecnici e alle élites. Negare tutto questo è negare la possibilità della democrazia, e avallare una forma di tirannia.

Conclusione
L'intera operazione che ha preparato il governo Renzi è ispirata alla "output democracy": l'irregoralità dell'operazione stessa verrà sanata dai buoni risultati che Renzi riuscirà a centrare. Esattamente il ragionamento che sorreggeva l'operazione Monti. Questo modo di fare politica è perfettamente coerente con lo spirito del tempo, e con le sensibilità diffuse a Bruxelles. Dovremmo dunque abituarci ad essere comandati da tiranni democratici. Tuttavia, c'è chi pensa che questa non sia una scelta obbligata. (C.M.)

domenica 2 marzo 2014

Alcuni riscontri

1) Ricordate quanto dicevamo in questo post? Passando oltre l'eccessiva semplificazione del "regalano soldi alle banche!!", descrivevamo l'operazione Imu-Bankitalia come un asuto stratagemma, ideato dal ceto politico e tecnocratico italiano, per rafforzare gli istituti di credito da cui dipende la sua sopravvivenza; ciò ovviamente in previsione dell'Unione Bancaria europea. Un trucco, dunque, per "schivare" le conseguenze della nuova normativa UE.
Questa lettura è confermata, ex post, da quanto accaduto pochi giorni fa: la Commissione Europea ha chiesto spiegazioni. Il fatto è ampiamente illustrato qui.
È facile fare una previsione, a questo punto: le istituzioni europee, pur avendo riconosciuto lo sgarbo, non prenderanno iniziative clamorose. Non si metteranno a contestare le scelte strategiche del nostro ceto politico. Cosa fatta capo ha
Com'è naturale, i 5 stelle gongolano: possono affermare di aver lottato per impedire che qualcosa di irregolare avvenisse. Ma stiano attenti a non gioire per la ragione sbagliata. L'istituto dell'aiuto di Stato, in sé, non ha nulla di vergognoso. Né è sbagliato cercare di prevenire la colonizzazione bancaria del nostro paese. 

 2) L'idea, espressa da Fabrizio Tringali, che Renzi non punti a durare fino al 2018, ma che voglia "cadere da eroe" portandosi alle elezioni anticipate da posizioni di forza, è condivisa anche da Aldo Giannuli. Non si tratta solo della generale pochezza delle figure dei ministri (tranne uno). Qui si parla di un disegno politico, intriso di cinismo, che mira a concentrare una quantità enorme di potere nelle mani di Matteo Renzi. Notate l'escalation descritta nella parte finale dell'articolo di Giannuli. Da brividi (C.M.)