mercoledì 30 aprile 2014

Una proposta sospesa

Uno dei temi di fondo delle discussioni sulla crisi attuale riguarda la possibilità di riproporre nel contesto attuale le politiche riformiste e keynesiane tipiche del trentennio seguito alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Ne abbiamo parlato in vari post, per esempio qui. Discutendo con vari amici si era pensato di organizzare un convegno su questi temi. Per vari motivi non siamo riusciti a concretizzare l'idea, che è quindi rimasta sospesa. Nel frattempo avevo scritto una breve presentazione della proposta di convegno, e ve la propongo adesso. Magari qualcuno dei lettori è più bravo di me a mettere insieme gli ingredienti necessari a concretizzare l'idea.
(Marino Badiale)




Per un convegno sulla crisi degli anni 70.
La crisi economica iniziata nel 2007/08 non è ancora stata superata, nonostante le assicurazioni sul fatto che “il peggio è passato” diffuse periodicamente dalle autorità economiche e politiche. La domanda fondamentale è naturalmente, ancora una volta, “che fare?”. Quale può essere la strategia, quali le scelte politiche ed economiche che possono portarci fuori da una crisi che sta impoverendo massicciamente intere popolazioni?
Il mainstream economico e politico ha, ovviamente, la risposta pronta: si tratta di continuare nelle politiche di liberismo economico, approfondendole e generalizzandole. Occorre cioè distruggere tutto ciò che i ceti popolari hanno conquistato nei decenni del dopoguerra, e tornare ad un capitalismo di tipo ottocentesco, ferocemente disegualitario. Senza nemmeno nessuna garanzia che queste politiche facciano davvero ripartire l'economia, visto che si tratta proprio delle stesse linee di pensiero e di azione che ci hanno portato alla crisi attuale.
Se vogliamo salvare quel poco che resta di civiltà nel nostro paese, occorre contrapporsi in maniera ferma alla coazione a ripetere di un neoliberismo che sembra davvero aver toccato, con questa crisi, i suoi limiti. Il vero problema, per le forze antagoniste, è quale tipo di proposte di politica economica contrapporre alle politiche neoliberiste. Se guardiamo al panorama dei dibattiti attuali fra gli economisti, appare evidente che le uniche posizioni che possano seriamente insidiare l'egemonia del “pensiero unico” neoliberista sono quelle che possiamo definire “keynesiane”, prendendo questo termine in senso molto lato. Si tratta cioè di quelle posizioni teoriche e pratiche che in vario modo ripropongono politiche di pieno impiego, di redistribuzione del reddito, di sostegno alla domanda, di forte intervento statale nell'economia, di forte regolamentazione e limitazione dei movimenti di capitale e in generale della sfera delle finanza.
Se vogliamo che un movimento antagonista abbia delle possibilità effettive di incidere sulla realtà politica, occorre porsi il problema se queste proposte di tipo keynesiano siano realistiche, se cioè sia oggi davvero possibile, nei paesi occidentali, il rilancio di una stagione riformista paragonabile a quella del “trentennio dorato” del secondo dopoguerra. Ora, la risposta a questa domanda non può eludere l'analisi del nodo storico degli anni Settanta del Novecento, cioè degli anni in cui, appunto, entra in crisi il modello “keynesiano-fordista”, che affonda nelle sabbie della “stagflazione”, e viene lentamente elaborato il capitalismo “neoliberista-globalizzato” che si imporrà negli anni Ottanta a partire dagli USA di Reagan e dall'Inghilterra della Thatcher, e che continuerà a celebrare i propri fasti  fino alla crisi attuale. La domanda cruciale da porsi è quella relativa al perché in quegli anni entri in crisi il keynesismo. Le risposte possibili ci sembrano essenzialmente di due tipi: un primo punto di vista è quello di chi ritiene che la crisi del keynesismo sia dovuta a fattori contingenti, a particolari situazioni storiche (per fare un solo esempio, i due shock petroliferi del '73 e del '79), sulle quali si  innesta una offensiva ideologica che i think tanks conservatori andavano preparando da decenni. Un diverso punto di vista è quello di chi ritiene che la fase di forte crescita del “trentennio dorato”, che ha permesso le politiche di Welfare State, di piena occupazione e di redistribuzione del reddito, fosse legata a particolari condizioni storiche, esaurite le quali le politiche di tipo keynesiano erano destinate a scontrarsi con i propri limiti, dimostrandosi incapaci, nella nuova situazione, di sostenere l'accumulazione capitalistica. Per fare un esempio, le particolari condizioni storiche che hanno permesso il forte sviluppo negli anni del secondo dopoguerra potrebbero essere rappresentate, fra l'altro, dalla presenza di ampi mercati per i beni durevoli di massa (automobili, elettrodomestici) prodotti dalle nuove fabbriche “fordiste”, e la saturazione di tali mercati potrebbe aver rappresentato uno degli elementi di crisi del modello keynesiano-fordista.
La risposta che si dà a queste domande condiziona in modo decisivo la strategia politica delle forze antagoniste. Infatti, se si ritiene che la crisi del keynesismo negli anni Settanta sia dovuta a motivi contingenti, è ragionevole pensare che tali motivi possano essere rimossi e che sia dunque possibile pensare ad una nuova fase di politiche economiche di tipo “riformista” e appunto “keynesiano”. In tal caso, sarebbe ragionevole la ricerca di un nuovo tipo di “borghesia progressista” con la quale cercare di ripetere le tipiche politiche novecentesche di alleanza fra forze riformiste e forze radicali. Importanti economisti progressisti come Krugman, Stiglitz o Fitoussi potrebbero allora essere visti come l'avanguardia intellettuale di una tale borghesia.
Se invece la crisi del keynesismo è dovuta all'esaurimento delle condizioni strutturali che ne avevano permesso i successi nel trentennio 1945-1975, e se oggi non c'è indicazione del riemergere di condizioni analoghe, allora la conclusione politica dovrebbe essere, necessariamente, quella dell'improponibilità delle politiche keynesiane come risposta alla crisi attuale. Questo non significa che un movimento antagonista debba rifiutare in blocco tali politiche, ma piuttosto che esso dovrebbe pensare ad una nuova strategia complessiva di tipo politico-economico, diversa da quella “classica “ del keynesismo-fordismo, all'interno della quale inserire, eventualmente, anche politiche di tipo keynesiano. Questa nuova strategia non potrebbe ripetere le classiche politiche della sinistra del Novecento e dovrebbe cercare strade nuove e nuove alleanze.
Da queste considerazioni discende la nostra proposta di un convegno dedicato all'analisi della crisi del keynesismo-fordismo degli anni Settanta. Si tratterebbe, come appare chiaro da quanto fin qui detto, non tanto dell'approfondimento scientifico di un problema storico (in ogni caso meritevole di attenzione) ma di un tentativo di collegare l'analisi storica ed economica alle pressanti domande sopra indicate. Si tratta naturalmente di un argomento ben delimitato, come è necessario sia per permettere una indagine scientifica. Ma l'argomento proposto permette di aprire l'analisi a molti altri aspetti della realtà attuale (la finanziarizzazione dell'economia, il debito pubblico, l'assenza di un soggetto politico antagonistico, l'egemonia del pensiero unico), perché essi sono il risultato di una dinamica storica le cui radici stanno appunto negli anni Settanta e nella crisi del “keynesismo-fordismo”. L'organizzazione del convegno dovrebbe cercare di mettere assieme studiosi critici del liberismo di diverse impostazioni teoriche (per dare un'idea: keynesiani e critici “radicali” sia del keynesismo sia del neoliberismo). La richiesta agli studiosi coinvolti dovrebbe essere quella di collegare l'analisi scientifica alle questioni politiche sopra delineate, con l'ambizione di tentare una sintesi delle varie interpretazioni per consentirci un passo in avanti nei confronti sia dei problemi del presente sia delle prospettive future.



sabato 26 aprile 2014

L'Altra Europa, presa sul serio

Non c'è nulla di male nel coltivare utopie (anche se qualcuno non è d'accordo). Essere velleitari però è un'altra cosa. Una generale velleità sembra permeare i punti più importanti del programma della (nota ai meno) Lista Tsipras.
Tale programma si può riassumere in una frase: fare l'Europa unita. Laddove hanno fallito Napoleone, Hitler e Jean Monnet dovrebbe riuscire Alexis Tsipras. Dato che questi non dispone né di demi-brigades e carri armati, né del sostegno degli USA e dei grandi gruppi industriali, dovrà fare ricorso al metodo democratico. L'Europa costruita dai cittadini: un programma che più bello non si può.
Tuttavia, se non si ha una chiara idea dello stato attuale delle cose si rischia seriamente di prendere sonore cantonate. Il punto di partenza delle analisi degli tsiprioti è totalmente sbagliato; curiosamente, si tratta di un errore condiviso da molti anti-euro.
"Non possiamo ritornare agli Stati nazionali sovrani", questa la parola d'ordine. È facile notare come sia speculare alla proposta anti-euro: questi infatti esclamano che tale ritorno è possibile e necessario. Gli uni e gli altri non considerano che noi NON ci troviamo in una situazione di superamento degli Stati nazionali. In particolare, l'Unione Europea non ha dissolto le sovranità dei singoli Stati. L'UE- rubo l'espressione a Joseph Halevi- non è altro che il ring dove si confrontano gli Stati. Non è che i pugili hanno deciso di smettere di tirarsi pugni; hanno semplicemente concordato di usare certi guantoni e non altri, e di non tirare colpi sotto la cintura. Si tratta però sempre delle stesse persone, che in qualsiasi momento potrebbero decidere di uscire dal ring.
Noi dunque abbiamo a che fare con le politiche di Stati nazionali; e solo con esse. La parola d'ordine degli tsiprioti dovrebbe essere, in realtà, togliamo sovranità agli Stati, e conferiamola ad uno Stato europeo.

(parentesi per i vetero-marxisti. Gran parte degli animatori della Lista Tsipras provengono da formazioni politiche più o meno comuniste. Il programma originario del movimento comunista era l'abolizione dello Stato. Questi invece vanno in solluchero all'idea di costruire un ennesimo, GRANDE Stato. Se ci si riflette non sono i primi comunisti a vivere un simile sbandamento: qualcosa di simile lo ha voluto anche Stalin. Da questo punto di vista, gli tsiprioti rappresentano una sorprendente variante stalinista, una variante particolarmente rosé)

Dunque non si tratta di proseguire lungo la strada dell'integrazione europea; si tratta proprio di cominciarla. Andiamo a vedere quali sarebbero i requisiti minimi per battere tale percorso.

- sostituzione dell'euro con una moneta comune; in alternativa costruzione di un bilancio federale europeo in grado di compensare con efficacia i disequilibri economici tra le diverse aree dell'Unione.
- creazione di un esercito unico europeo; in alternativa, disarmo generalizzato. Questo tra l'altro era uno dei punti cardine del Manifesto di Ventotene. È curioso che una lista di sinistra non spenda una parola sul fatto che gli Stati europei mantengano alcuni tra i più grandi eserciti del mondo, senza contare gli arsenali nucleari. Naturali corollari di questo punto sono l'unificazione della politica estera e di difesa, e rinuncia da parte dei singoli Stati dei loro seggi presso le istituzioni ONU, come il Consiglio di Sicurezza.
- accentramento dei poteri in capo al parlamento europeo. Tutte le istituzioni UE diverse dal parlamento rappresentano le singole sovranità nazionali; ma nella prospettiva dell'unificazione queste non possono sopravvivere. Quindi non più poteri al parlamento, ma tutti i poteri al parlamento. In particolare, soltanto al parlamento dovrebbe essere riconosciuto il potere di rivedere i Trattati istitutivi dell'Unione.

In un Europa unita, le istituzioni europee dovrebbero potere, ad esempio:

 -annullare le riforme Hartz attuate in Germania;
-ordinare ai paesi in surplus commerciale politiche espansive che riequilibrino tali sbilanci;
-prendere le risorse dal contribuente olandese e usarle per costruire infrastrutture in Portogallo;
-emanare una legge, generale e vincolante per tutti, che unifica il trattamento fiscale delle transazioni finanziarie, a Cipro come a Londra;
- emanare una legge, generale e vincolante per tutti, che unifica il trattamento sanzionatorio dei reati contro la pubblica amministrazione, a Palermo come a Copenaghen;
-decidere la politica comune da adottare con Putin, o con riguardo alla Siria;
-gestire l'arsenale atomico francese, che ovviamente non può rimanere nelle mani di un solo Stato membro;
e così via.
Ovviamente questi interventi, e altri più di dettaglio, non possono essere stabiliti a tavolino in un cenacolo di intellettuali; dovrebbero essere decisi da una Assemblea Costituente Europea, eletta col mandato di scrivere una vera e propria Costituzione, essa sì capace di sottrarre per sempre sovranità ai singoli Stati.

Ammettiamo che tutto ciò sia realizzabile, oltre che immaginabile. E poniamo che sia realizzabile senza passare attraverso guerre mondiali o civili, com'è tipico dei grandi processi costituenti. Quali soggetti sociali dovrebbero inaugurare una simile impresa? Con quali forze? In quanto tempo? O meglio, in quante generazioni?
Naturalmente nulla vieta di coltivare una simile prospettiva, almeno a livello ideale. Un conto però è la prospettiva ideale, un altro l'agenda politica immediata. Nella Lista Tsipras i due ambiti si sovrappongono, e si finisce per proporre, come programma per l'oggi, ciò che è forse realizzabile dopodomani. Da qui il rischio concreto di non poter essere presi sul serio.
L'impressione che se ne trae è che il mondo intellettuale che sta dietro all'operazione Tsipras, perduta qualsiasi speranza di contare in Italia, cerchi di sublimare la propria impotenza fantasticando di un'altra Europa; ignorando, in ciò, qualunque  analisi di plausibilità politica, e senza darsi conto di rappresentare qualche istanza reale dei cittadini e dei lavoratori di questo paese. (C.M.)

venerdì 25 aprile 2014

Ancora sul TTIP

Per fortuna sta crescendo la percezione del pericolo rappresentato dalle trattative per il TTIP, il "Trattato Transatlantico". Lo avevamo segnalato qui, ma nel frattempo si sono moltiplicati gli interventi, per esempio questo. Esiste anche un sito espressamente dedicato.
Mi permetto solo un'osservazione: in un articolo sul "Fatto Quotidiano" di mercoledì scorso (che non ho trovato in rete), Stefano Feltri spiega che il progetto di un'area di libero scambio fra USA e UE "metterebbe l'Occidente nelle condizioni di sopravvivere all'ascesa della Cina e alla minaccia geopolitica della Russia". La logica è quella stessa, da noi più volte sottolineata, che sottintende alla creazione di UE e euro: occorre approntare "grandi spazi" geopolitici ed economici sottomessi alla disciplina del capitale "neoliberista" per competere e vincere nello scontro globale per l'egemonia; ridotto in pillole, è la logica dell'imperialismo del XXI secolo. Il TTIP appare come lo sviluppo consequenziale di euro e UE, e per questo appare davvero strana la posizione di chi si mobilita contro il TTIP ma elude il nodo dell'uscita da euro e UE.
(M.B.)

mercoledì 23 aprile 2014

Piedi storti


Marino Badiale ha illustrato la consistenza logica di un classico argomento “eurista” con una metafora assai calzante, è il caso di dirlo. Il giornalista di Repubblica Federico Fubini non si capacita che l'euro possa avere qualche responsabilità nel declino economico del nostro paese, visto che è la stessa moneta di paesi che crescono (si fa per dire). Il nostro non ha ben riflettuto su quale sia il contenuto del principio di eguaglianza: non si tratta solo di far parti eguali tra eguali, ma soprattutto di NON fare parti eguali tra diseguali. Perciò è perfettamente possibile che una condizione eguale a più soggetti sia causa di disparità tra gli stessi soggetti; proprio peché questi NON sono eguali. Ma c'è di più. Spesso far parti eguali fra diseguali non solo crea disagio per i soggetti coinvolti, ma dà vita a fenomeni di retroazione positiva. Questa è una qualità dei sistemi dinamici nei quali i risultati del sistema vanno ad amplificare il funzionamento del sistema stesso. Può essere presa ad esempio l'agire della forza centrifuga, o anche il c.d. Effetto domino. Mettere economie diverse nello stesso mercato produce, in primo luogo, una polarizzazione tra le diverse economie, che si aggrava sempre di più: i ricchi diventano sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri. Ecco perché l'eguaglianza non è il principio giusto per fondare la pretesa dell'unificazione europea. Il principio giusto è quello di eguagliamento. Prendiamo la Costituzione, all'art. 3. Questo è il princio di eguaglianza:

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
Questo è quello di eguagliamento:
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
In termini fisici, l'eguagliamento equivale ad una retroazione negativa: i risultati del sistema tendono a equilibrare il sistema stesso. Una buona metafora è quella della boa: la boa può scendere sotto il pelo dell'acqua, ma ritorna inesorabilmente a galla ripristinando la condizione originaria. In Europa una simile dinamica potrebbe essere rappresentata da una robusta stagione di politiche industriali e redistributive, dal Nord al Sud, che riavvicinino le condizioni economiche dei diversi paesi.
Ecco, a mio avviso, il principale capo di imputazione che pende sui responsabili del processo di integrazione (?) europea: non aver avvicinato tra loro le condizioni di benessere dei vari paesi, ma anzi l'averle divaricate in maniera forse irreparabile.
Tuttavia, il discorso non può chiudersi qui. Dobbiamo sforzarci di intendere quello che Fubini voleva dirci col suo linguaggio maldestro. Si tratta di un messaggio molto importante: potremmo definirlo il cuore stesso dell'ideologia dell'adesione italiana dell'euro.
Noi facciamo bene a mettere in luce che la scarpa euro non può andare bene per tutti i piedi europei, poiché questi sono diversi tra loro. Chiediamoci, giunti a questo punto: ma perché mai quei piedi sono così diversi?
Qui il discorso deve farsi più circoscritto. È abbastanza facile intuire cosa distingue l'economia tedesca da quella greca o portoghese. Tuttavia la retroazione positiva, la diseguaglianza come prodotto dell'eguaglianza, non coinvolge solo piccole economie marginali, ma paesi del calibro della Francia o dell'Italia. Concentriamoci sul nostro paese. Abbiamo capito che non dovremmo avere la stessa moneta della Germania; ma perché la nostra moneta, per garantirci competitività, deve essere strutturalmente più debole di quella tedesca?
È necessario ammettere che il ritorno alla lira sarebbe, da parte dell'Italia, equivalente al ricorso ad una serie di misure protezionistiche. Si protegge ciò che è debole da ciò che è più forte. Cosa rende la Germania così forte?
La risposta standard in genere è: il taglio (o la mancata crescita) dei salari tedeschi. Ne abbiamo parlato infinite volte; ma questa spiegazione può (forse) spiegare il differenziale di produttività con la Francia. Non ci dice molto, invece, sullo svantaggio competitivo del nostro paese, un paese che ha vissuto una deflazione salariale ancora più radicale di quella tedesca.
Dovremmo cominciare ad ammettere che il capitalismo tedesco è più grande, forte e moderno del “nostro”; e che con tutta probabilità tra le ragioni di questa maggior forza un ruolo non secondario hanno tutti quei fattori che gli anti-euro derubricano a “Propaganda PUDE”: la corruzione, l'evasione fiscale, l'illegalità di massa, i differenti livelli di scolarizzazione, la dimensione relativa delle imprese, gli investimenti in ricerca e sviluppo...
Riepilogando: far parti eguali tra diseguali è disastroso, ma le radici della diseguaglianza tra noi e la Germania sono in massima parte endogene, e uscire dall'euro, in sé, non ci aiuterà a risolverle. Ecco il senso di quel che voleva dire lo sventurato Fubini.
Vero è che l'uscita dall'euro potrebbe darsi come condizione necessaria di un generale “risveglio” dell'economia italiana. Dal punto di vista meccanico-economico la cosa appare sensata. Dal punto di vista politico (che poi è quello che conta) non sarei così ottimista. Spiego.
L'errore strategico degli “euristi” è stato quello di pensare, contro ogni logica economica ed esperienza storica, che il mercato unico europeo avrebbe generato una retroazione negativa tra i paesi europei; che per il solo fatto di non poter contare sulle svalutazioni le imprese italiane sarebbero divenute più competitive: che per insegnare a nuotare a qualcuno il modo migliore sia gettarlo, di soppiatto, in acqua. Et de hoc satis: abbiamo visto cos'è accaduto.
Il guaio di molti anti-euro, invece, è il tener in nessun conto le ragioni strutturali e endogene della debolezza italiana. Sembra che propongano di tenerci stretti evasione fiscale, scarso dimensionamento delle imprese, scarsi investimenti di alto livello ecc, però riparati dietro lo scudo della lira svalutata. Sembra che propongano, in sintesi, di proteggere le debolezze del capitalismo italiano. Tale posizione politica, che non mi pare esagerato ascrivere alle forze che su quelle debolezze hanno costruito il loro successo, come la Lega, Forza Italia e fascisteria varia, è sicuramente perdente e retrograda. Il bipolarismo tra pro-euro e anti-euro sopra descritti condurrà questo paese lungo la china di un irreversibile declino.
Quel che sorprende è vedere che nessuno, nell'ambito della classe dominante di questo paese, ha uno straccio di idea di come affrontare il problema principale: la rimozione degli elementi che ci impediscono di assomigliare a una grande potenza capitalistica. Sono tutti presi a discettare del vincolo esterno, vuoi rafforzandolo (piddini) vuoi indebolendolo (leghisti), senza proporre nulla che possa incidere sulle ragioni endogene del nostro declino.
Lungi da me suggerirgliele. Tali diatribe dovrebbero essere perlopiù estranee a chi coltiva una una prospettiva di superamento del capitalismo. Il capitale italiano soffre, da sempre, di una debolezza cronica e inemendabile. Solo il suo rovesciamento potrà salvare questo paese dallo sfacelo. Ma in fondo, a ben guardare, questo vale per tutti i popoli allo stesso modo. (C.M.)

sabato 19 aprile 2014

La colpa è dei tuoi piedi


Il risvolto di copertina dell'ultimo libro di Federico Fubini ci spiega che

“Da quando l'euro è iniziato siamo andati peggio degli altri. Non può dunque essere colpa della moneta unica e delle sue regole, una condizione uguale per tutti, ma di una differenza italiana.”

Siano di fronte a una fallacia logica davvero notevole. Facciamo un esempio per capirci. Si prende un gruppo di una ventina di persone: uomini e donne, bambini, adulti e vecchi, alti e bassi, grassi e magri, e si comunica loro la bella idea che, per rendere più pratico e facile l'acquisto delle scarpe, dovranno tutti portare scarpe dello stesso numero, diciamo il 41. Cosa succederà? Che chi ha il piede della misura giusta si troverà bene, tutti gli altri si lamenteranno delle scarpe troppo piccole o troppo grandi. Ma arriva Fubini a mettere a posto questi criticoni: dov'è il problema? Se abbiamo adottato “una condizione uguale per tutti”, e voi state male e gli altri no, la colpa evidentemente è vostra! Tagliatevi i piedi!

A Fubini non passa neppure per la mente l'idea che il problema è appunto quello di avere adottato “una condizione uguale per tutti”, per paesi ed economie diverse fra loro. Comunque, se questo è il livello degli argomenti del mainstream pro-euro, viene davvero da dare ragione a Bagnai, quando dice che abbiamo già vinto. Almeno sul piano delle idee.
(M.B.)









giovedì 17 aprile 2014

La lettera di Padoan, e la risposta della Commissione

Ecco il testo tradotto dello scambio di lettere tra il Ministro Padoan e il Vice-Presidente della Commissione Europea Sim Kallas. Qui gli originali. 
 Con questo documento il Governo ufficializza di voler derogare agli obiettivi di bilancio stabiliti dagli accordi europei. Valuti il lettore se ciò rappresenta o meno una conferma di quanto previsto da questo blog.

Dear Sim,
Sono lieto di poterti inviare, allegato a questa lettera, il Documento di Economia e Finanza italiano per il 2014, al cui interno vi sono i Programmi di Stabilità e Riforma Nazionale.
Questo documento costituisce la risposta del Governo italiano agli effetti della dura recessione che ha colpito il paese tra il 2012 e il 2013, contemplando misure concrete per aumentare il potenziale di crescita nel medio termine e implementare importanti riforme strutturali.
Il Governo italiano, al fine di reagire agli effetti della recessione, e in armonia con la clausola delle "circostanze eccezionali" di cui alla Legge sull'Equilibrio di Bilancio (L. 243/2012, art. 6), ha deciso di accellerare il pagamento degli arretrati dei debiti della Pubblica Amministrazione con le imprese nella misura di ulteriori 13 miliardi di euro nel 2014, il che provocherà un aumento del rapporto debito/PIL riferito allo stesso anno.
La clausola richiamata stabilisce che il Governo può, informata la Commissione e riferito al Parlamento, deviare temporaneamente dagli obiettivi di bilancio, qualora ciò sia ritenuto necessario per affrontare"circostanze eccezionali".
Al capitolo 3 del Programma di Stabilità è descritto in dettaglio il piano di riallineamento dei conti pubblici. Esso prevede un rallentamento della convergenza al MTO* nel 2014 (con una riduzione del deficit dello 0,2% del PIL), una forte convergenza nel 2015 (con una riduzione dello o,5), e una piena convergenza nel 2016, con il raggiungimento del pareggio strutturale di bilancio. Tale manovra fiscale sarà inoltre accompagnata da un esteso piano di privatizzazioni, per un valore pari allo 0,7% del PIL all'anno, finalizzato al ridimensionamento della dinamica del debito pubblico. Questo piano assicurerà un pieno rispetto delle regole di bilancio europee.
Nella parte rimanente del 2014, il Governo utilizzerà i risparmi derivanti dal processo di revisione della spesa per finanziare ambiziosi programmi di alleggerimento fiscale e di rafforzamento del potenziale di crescita italiano nel medio e breve periodo.
Yours Sincerely,
P.C.P.

Dear Mr. Padoan,
è mio piacere ringraziarti, anche a nome del Vice-Presidente Kallas, della lettera inviataci in data 16 aprile. La Commissione prende atto dell'annunciata deviazione temporanea dagli obiettivi di bilancio e del rinvio al 2016 del raggiungimento del pareggio strutturale. La Commissione, nell'ambito del Semestre Europeo, giudicherà il percorso di aggiustamento finalizzato al MTO nel contesto della valutazione dei Programmi di Stabilità e Riforme, la quale verrà pubblicata in data 2 giugno.
Yours Sincerely,
Marco Buti

*Medium Term Objective, obiettivo di medio termine. Si riferisce alla soglia del 3% del rapporto deficit/PIL.

martedì 15 aprile 2014

Lieto di correggermi...

Sapevo di essere un po' impreciso, dicendo qualche giorno fa che "i comunisti buoni sono sempre quelli degli altri". Sono lieto di correggermi e di segnalare questo intervento di Domenico Moro, che mi sembra molto chiaro e lucido. Con Domenico Moro avevo avuto una polemica non gradevole, anni fa, a proposito della decrescita. Ma, a differenza dei comunisti, io non porto rancore...
(M.B.)

lunedì 14 aprile 2014

Il fallimento strategico dell'europeismo


Le classi dominanti europee impongono all'intera società del continente un obiettivo ambizioso: l'unificazione dell'Europa. Un'unificazione dapprima parziale, economica e giuridica, e in un secondo tempo completa, politica. In nome di questo obiettivo ogni operazione viene giustificata: in particolare il dissolvimento dei diritti dei lavoratori e la rappresentanza democratica dei cittadini tutti. Il fine europeo giustifica i mezzi, che potremmo definire genericamente neoliberisti. 

Da più parti viene l'invocazione degli Stati Uniti d'Europa, come forma ideale che dovrebbe assumere questa unificazione. In realtà, queste sono voci minoritarie: la maggior parte dell'establishment esclude che la forma degli Stati Uniti in senso stretto sia realizzabile. Tuttavia l'intero spettro dei dominanti è unanime nel definire necessaria una maggiore integrazione europea; in concreto, il conferimento di maggiori poteri alle istituzioni dell'Unione Europea.
Se volessimo prendere sul serio queste voci, dovremmo concludere che l'intento unificatorio è andato incontro ad un fallimento; anzi, che non ha speranze di successo. Le classi dominanti europee non sono in grado di unire l'Europa.

Che non vi siano riuscite è un dato innegabile. La crisi dell'euro ha determinato una polarizzazione senza precedenti tra le economie europee, e ha resuscitato rancori e antagonismi nazionali che sembravano ormai sepolti. Angela Merkel stravince le elezioni affermando che è giusto negare qualsiasi solidarietà agli altri popoli europei; nella gran parte degli stati dell'Unione hanno sempre maggior peso i movimenti che chiamano alla lotta contro lo strapotere tedesco. Sono tornati in auge, all'alba del XXI secolo, gli stereotipi razzisti del tedesco operoso e del mediterrano pigro e dissoluto. Ma la bancarotta dell'europeismo non si limita alla sfera politica: anche in quella economica possiamo registrare una decisa segmentazione dei mercati finanziari europei, una ri-nazionalizzazione dei debiti sovrani, e sopratutto una incredibile divaricazione nelle performance delle diverse imprese, a seconda che siano localizzate nell'uno o nell'altro stato europeo. 

Insomma, le classi dominanti hanno fallito nel loro intento dichiarato; nel contempo sono riuscite in quello che è “il loro mestiere”, e cioè l'asservimento dell'intera comunità alle ragioni del capitale. Tuttavia se lo scopo delle borghesie continentali era preservare le proprie rendite di posizione nello scenario internazionale, possiamo dire che il bilancio è disastroso. In termini di potenza geopolitica, gli stati europei sono asserviti al predominio politico e militare USA; soggetti al ricatto energetico russo: impotenti di fronte al successo economico cinese. Questi tre soggetti appena richiamati prendono tutte le decisioni che contano a livello globale, lasciando briciole agli europei. Insomma, l'Unione Europea è sì riuscita a consolidare il dominio capitalistico sul continente europeo, ma non ha certo favorito l'espansione di tale dominio fuori da quell'ambito. Merkel può tranquillamente schiacciare il popolo greco; ma non può assolutamente nulla contro Putin in Ucraina, non riesce ad arginare l'export cinese, ed è pur sempre Cancelliere di un paese occupato da truppe USA. 

Ci si può chiedere se il fallimento di cui sopra sia dovuto a degli errori, o ai limiti soggettivi dei leader europei. Personalmente credo invece che sia dovuto alla natura stessa del processo eurounitario, il quale a sua volta deriva dalle esigenze dello sviluppo del capitale europeo.

Il fulcro dell'Unione Europea è la promozione della concorrenza. Essa costituisce l'alfa e l'omega di ogni provvedimento europeo. D'altro canto non potrebbe che essere così: la concorrenza è il motore dello sviluppo capitalistico. Il tipo di concorrenza più importante, sia per il capitale che per l'Unione, è quella tra lavoratori. Potremmo quasi dire che se i lavoratori non fossero in costante competizione tra loro, non potrebbe esserci capitalismo. L'Unione europea porta alle estreme conseguenze la competizione tra i lavoratori dei diversi paesi (oltre che all'interno di ogni singolo stato, ovviamente). La svalutazione dei salari diventa la così prima arma di competizione delle singole borghesie nazionali.
Ora, un prerequisito perché tutto ciò abbia luogo è l'assenza di solidarietà tra le classi operaie dei diversi paesi. Se la classe operaia tedesca avesse sentito una qualche forma di solidarietà per i lavoratori degli altri paesi europei, non avrebbe (di fatto) accettato le riforme di Schroeder, approvate indicando la necessità di rendere più competitivo il capitale di quel paese. In generale, se i lavoratori europei fossero uniti non potrebbe riuscire il giochetto delle delocalizzazioni, impiegato dalle imprese come strumento strategico di sottomissione delle resistenze operaie. Moneta unica e mobilità dei capitali non potrebbero spuntarla contro un movimento operaio organizzato a livello internazionale. Del resto, spostandoci dalle cause alle conseguenze della crisi, se esistesse una solidarietà tra popoli europei questi ultimi non avrebbero mai accettato che si facesse quanto è stato fatto alla Grecia. Atene è sempre rimasta sola

Ecco spiegata la ragione strutturale per cui non è mai stata attuata, né a livello europeo né nelle singole nazionali, una vera e serie politica di avvicinamento tra i diversi popoli europei. Non si sono registrate autentiche politiche di scambi culturali e linguistici (se si esclude la farsa dell'Erasmus). Non si è mai spesa una parola per dire che dovrebbe essere ovvio, e cioè che dentro ad una Unione non si dovrebbe competere, ma aiutarsi reciprocamente. Non è stato fatto nulla, perchè le classi dominanti europee non avrebbero potuto permetterselo. Tutti i vantaggi che al capitale derivano dall'Unione Europea si fondano sul fatto che i popoli europei sono divisi; ecco perché è sempre stato insensato attendersi dalle classi dominanti un serio sforzo di unificazione di quei popoli. In luogo di questo sforzo, si è sempre propagandata una (malintesa) retorica della responsabilità: i greci stanno male perché è colpa loro, i bavaresi stanno bene per loro merito; la stessa logica che alimenta fenomeni come la Lega e i vari secessionismi. Una logica e una retorica funzionali ai disegni del capitale, e tuttavia in netta antitesi con la formazione di una coscienza sociale sovranazionale ed europea; coscienza che a sua volta, in assenza di un vero e proprio popolo europeo, è il requisito indispensabile per aversi interventi economici di livello propriamente sovranazionale, come gli eurobond. I dominanti europei vorrebbero davvero dare vita ad una entità imperialista europea, ma ciò è reso impossibile dalla loro stessa tendenza a frantumare e dividere l'unica possibile base sociale di tale entità, e cioè i cittadini (e contribuenti) europei. 

In sintesi, si può dire che la formazione consensuale di grandi entità sovranazionali si basa su principi di solidarietà e cooperazione; lo sviluppo del capitale, invece, si basa sulla competizione. L'unico modo nel quale potrebbe darsi realisticamente una unificazione europea nell'ambito del capitalismo è quella di una sottomissione del continente da parte di un unica potenza imperialista a base nazionale. Così sì che avremmo l'unione politica. Napoleone e Hitler ci hanno provato, ma senza particolare successo. (C.M.)

I comunisti buoni sono sempre quelli degli altri

Notavamo qualche tempo fa che non tutti i comunisti sono uguali. Non possiamo che ribadire il concetto, di fronte a questa intervista di J.Ferreira, comunista portoghese candidato alle europee. Ecco finalmente un comunista che pronuncia le frasi che vorremmo tanto sentir pronunciare in Italia, frasi come questa:


"I tentativi di sottomissione delle nazioni in corso nell'UE rappresentano una forma di oppressione di classe che viene esercitata sui lavoratori e i popoli, oltre che un inquietante e pericoloso attacco alla democrazia. Chi, pur dicendosi di sinistra, non lo percepisce, o non lo vuole percepire, non comprenderà un elemento decisivo per intervenire sulla realtà del nostro tempo, trasformandola nel senso del progresso sociale. Se l'evoluzione del capitalismo ha portato le classi dominanti a sacrificare gli interessi nazionali ai propri interessi di classe, allora, al contrario, ciò conduce all'identificazione crescente degli interessi dei lavoratori e del popolo con gli interessi nazionali"


Ma noi, cosa abbiamo fatto di male per meritarci Bertinotti, Ferrero e Diliberto?
(M.B.)



sabato 12 aprile 2014

Lo dice la Bocconi!

Segnaliamo questa lettura. Il "segreto" del mercantilismo tedesco e dell'euro ormai non è più tale per nessuno. Stupisce che ci siano voluti 10 anni per comprenderlo...

giovedì 10 aprile 2014

L'europeismo è un aborto dell'imperialismo

Qualcuno si ricorderà di cosa pensasse degli Stati Uniti d'Europa un fine intellettuale di inizio novecento. Stavolta parliamo delle opinioni di un altro celebre autore, Rosa Luxemburg, in un suo scritto.
Lo Scalfari di fine ottocento affermava:

Per ottenere una pace duratura, che bandisca per sempre il fantasma della guerra, c’è solo una cosa oggi da fare: l’unione degli stati della civiltà europea in una federazione con una politica commerciale comune, un parlamento, un governo e un esercito confederali - ossia la formazione degli Stati Uniti d’Europa. Qualora si riuscisse in questa impresa, un grandioso passo potrebbe dirsi compiuto.

Non è uguale?

Altri esponenti della sinistra del tempo rincaravano la dose:

Noi esigiamo l’unione economica e politica degli stati europei. Io sono fermamente convinto che gli Stati Uniti d’Europa, non solo si realizzeranno sicuramente durante l’era del socialismo, ma potrebbero realizzarsi anche prima che giunga quel tempo, per far fronte alla concorrenza commerciale degli Stati Uniti d’America. In conclusione noi chiediamo che la società capitalista, che i capi di stato capitalisti, nell’interesse dello sviluppo capitalista dell’Europa stessa, al fine di evitare che l’Europa venga completamente sommersa della competizione mondiale, si preparino a questa unificazione dell’Europa negli Stati Uniti d’Europa.

Siamo nel 1911. Non sembra il 2011? 
Che rispondeva la Luxemburg? 

L’idea degli Stati Uniti d’Europa come condizione per la pace potrebbe a prima vista sembrare ad alcuni plausibile, ma a un esame più attento non ha nulla in comune con il metodo di analisi e con la concezione della socialdemocrazia. (...) noi abbiamo sempre sostenuto l’idea che i moderni stati, al pari delle altre strutture politiche, non siano prodotti artificiali di una fantasia creativa, come ad esempio il Ducato di Varsavia di napoleonica memoria, ma prodotti storici dello sviluppo economico. Ma qual è il fondamento economico alla base dell’idea di una federazione di stati europei?
l’idea dell’Europa come unione economica, contraddice lo sviluppo capitalista per due ragioni. Innanzitutto perché esistono lotte concorrenziali e antagonismi estremamente violenti all’interno dell’Europa, fra gli stati capitalistici, e così sarà fino a quando questi ultimi continueranno ad esistere; in secondo luogo perché gli stati europei non potrebbero svilupparsi economicamente senza i paesi non europei.  (...) Nell’attuale scenario dello sviluppo del mercato mondiale e dell’economia mondiale, la concezione di un’Europa come un’unità economica isolata è uno sterile prodotto della mente umana. L’Europa non rappresenta una speciale unità economica all’interno dell’economia mondiale più di quanto non la rappresenti l’Asia o l’America. 

Che significa? Luxemburg ci ricorda una cosa molto simile: la regola del capitalismo è quella della competizione, della competizione feroce e continua. Gli stati, e i loro eserciti, sono strumento della competizione tra i soggetti principali della competizione inter-capitalistica. Dunque è illusorio immaginare che possa esistere la pace nel capitalismo, a prescidere dalle forme che assumono gli Stati in quell'ambito. Considerate che l'autrice scriveva nel 1911...
Dopo l'apocalisse dei due conflitti mondiali, in Europa sembra tramontata l'era dei conflitti armati; ma l'Unione Europea è l'arena ideale della guerra economica tra gli stati membri, come vediamo ogni giorno. Perché vi sia questa guerra economica c'è bisogno della frammentazione e dell'assenza di solidarietà tra i cittadini europei; eppure per aversi un popolo europeo, fondamento ineludibile di un vero Stato europeo, occorrerebbero proprio solidarietà e identità di vedute tra i diversi cittadini europei. Ne segue che è del tutto implausibile che l'Unione evolva negli Stati Uniti: proprio perché l'una si fonda sull'assenza di quegli elementi che sarebbero indispensabili per avere gli altri.

L'altro motivo per cui Luxembourg escludeva che gli Stati Uniti potessero essere una parola d'ordine dei rivoluzionari attiene al fatto che essa rimanda ad un certo qual "nazionalismo europeo": gli europei si unirebbero, sostanzialmente, contro gli altri popoli del mondo. In altre parole, l'europeismo non è il coronamento, ma il contrario esatto dell'internazionalismo. E infatti:

Che un' idea così poco in sintonia con le tendenze di sviluppo non possa fondamentalmente offrire alcuna efficace soluzione, a dispetto di tutte le messinscene, è confermato anche dal destino dello slogan degli “Stati Uniti d’Europa”. Tutte le volte che i politicanti borghesi hanno sostenuto l’idea dell’europeismo, dell’unione degli stati europei, l’anno fatto rivolgendola, esplicitamente o implicitamente, contro il “pericolo giallo”, il “continente nero”, le “razze inferiori”; in poche parole l’europeismo è un aborto dell’imperialismo.

Possiamo dire che Rosa Louxemburg è stata profetica! (C.M.)


mercoledì 9 aprile 2014

Due mosse da maestro

Da qualche parte nel Movimento 5 Stelle ci dev'essere uno stratega. Chiunque sia, a lui vanno i miei complimenti. In pochi giorni il Movimento ha messo a segno due colpi da alta scuola politica. In primo luogo Grillo e Casaleggio hanno firmato l'appello di Libertà e Giustizia. Così facendo, hanno creato un cortocircuito molto simile a quello occorso un anno fa, quando il Movimento scelse Rodotà come candidato Presidente della Repubblica. Il mondo della grande intellettualità progressista e democratica viene così strappato dall'abbraccio soffocante dei piddini, e riportato ad una dimensione più respirabile. I club dell'intellighenzia italiana hanno uno storico difettuccio: somigliano a circoli di generali senza truppe. Elaborano progetti meravigliosi, incarnano quelle qualità e competenze che potrebbero salvare questo paese; e tuttavia mancano di quel sostegno popolare senza il quale non si fa politica, ma si chiacchiera. Dall'altra parte il Movimento dispone di una capacità di consenso e mobilitazione invidiabile, ma difetta di valide risorse intellettuali. Insomma, si tratta di gruppi complementari, anche se apparentemente distanti (che c'azzeccano Micromega e il Vaffanculo?). Faccio notare che, fino a due settimane fa, Libertà e Giustizia era impegnata a tempo pieno nell'insulto al Movimento.
Non contento, lo stratega 5 stelle ha pensato bene di balcanizzare (forse definitivamente) il PD. Com'è noto, la "sinistra" interna di quel partito ha proposto un disegno di legge costituzionale alternativo all'aborto di Renzi. È bastato che il capogruppo 5 stelle al Senato esprimesse un pubblico apprezzamento per il testo per scatenare la guerra civile dentro al PD. Notare: il c.d. Testo Chiti ha ora l'appoggio di 22 senatori del PD, 40 5stelle, 7 arci-probabili di Sel e anche 15 dei "grillini dissidenti" (se ancora frequentano il Senato). Fa 84; una cifra da non sottovalutare.
Avremo tempo di analizzare il Testo Chiti; e già che ci siamo proporremo la lettura di un altro DDL costituzionale, avanzato anni fa, tra gli altri, da Rodotà. Al di là del merito della questione, in termini tattici il Movimento ha fatto diversi passi avanti; e  soprattutto appare in grado di mettere in crisi Renzi e il PD. (C.M.)

martedì 8 aprile 2014

Ah, ecco come ci pagano gli 80 euro


Ma naturalmente è solo l'antipasto. Nei prossimi tre anni ci venderemo altri 30 miliardi di aziende pubbliche. A beneficio di chi ha i soldi, ossia i capitali esteri.
E le misure non risparmieranno, a quanto pare, nemmeno le ex-municipalizzate, cioè le società che erogano i servizi pubblici locali. Come a Firenze, tipo.
E noi che facciamo? Non reagiamo? Alle europee, tipo? (C.M.)

lunedì 7 aprile 2014

Fatti nuovi, tutti assieme

Mettiamo in fila alcuni fatti, praticamente tutti arcinoti; tuttavia è importante cercare di coglierli nel loro significato. Tutti insieme sembrano dare un certo segnale. Vediamo:

-Sappiamo che Renzi vuole aumentare il rapporto defict/pil del nostro paese. Il Premier dice che rispetterà i parametri di Maastricht, ossia il limite del 3%; ma i nostri lettori sanno che il Fiscal Compact impone di non superare lo 0,2. Tanto è vero che ci si chiede se Renzi sappia quali siano gli effettivi contenuti dei patti europei. Ma a ben guardare è una questione irrilevante: la nuova dirigenza PD, nelle parole del responsabile economico del partito, vuole rimettere in discussione proprio i termini dei trattati. E uno.

-Il nuovo ministro dell'economia francese- nominato a seguito della grande sberla- annuncia che anche il suo governo metterà in discussione i vincoli di bilancio. E due.

-In Germania il governo di grande coalizione sta per introdurre un salario minimo legale che dovrebbe aiutare i salari reali, diminuire la precarietà e sostenere la domanda interna. E tre.

-Mario Draghi annuncia misure non convenzionali per sostenere la crescita europea e rendere, di  fatto, più facile ripagare i debiti degli Stati e dei privati dell'Europa meridionale. In pratica, si tratta di una monetizzazione generalizzata dei debiti europei. Un intervento non privo di contraddizioni, ovviamente. Un intervento che conserva la sua importanza, tuttavia. E quattro.

Che impressione si trae tenendo nel nostro campo visivo questi fatti nuovi, tutti assieme? Vi invito a dire la vostra. A me danno l'impressione di una conferma di un sentore che ho già espresso qui e qui. Le classi dirigenti europee, dopo la normalizzazione neoliberista dell'intero continente, si apprestano a smantellare-gradualmente- il dispositivo dell'austerità. Il che, fra le altre cose, sortirà l'effetto di impedire che l'euro crolli sotto il peso delle sue contraddizioni. (C.M.)

domenica 6 aprile 2014

Alle spalle dei rivoluzionari



J.B.Schor, Nati per comprare, Apogeo 2005. J.Balkan, Assalto all'infanzia, Feltrinelli 2012.


Ci siamo chiesti tempo fa “perché la gente non si ribella?” e abbiamo esaminato alcune possibili risposte. Avevamo detto che forse, per trovare risposte convincenti, occorre indagare temi di psicologia e antropologia. Qualche indizio (non una risposta compiuta, s'intende) mi sembra di averlo trovato in questi due libri, che descrivono, in modi diversi ma convergenti, come l'attuale sistema economico stia invadendo la sfera dell'infanzia per trasformare, ad un'età sempre minore, i bambini in consumatori compulsivi. Si tratta di un esempio perfetto di ciò che, assieme al compianto Massimo Bontempelli, avevamo chiamato “capitalismo assoluto”: il fenomeno per il quale la logica del profitto e dell'accumulazione capitalistica si estende a tutti gli ambiti della vita, anche a quelli che tradizionalmente ne erano immuni, o solo marginalmente sfiorati. Dal mio punto di vista, è particolarmente notevole il modo, descritto in questi libri, in cui le corporations sono riuscite a penetrare nella scuola: prima come sponsor, favorite dalla cronica mancanza di fondi delle scuole pubbliche, poi addirittura donando alle scuole stesse “pacchetti educativi” completi di programmi e materiale didattico. Per cui, come osserva allarmata Juliet Schor, a pag.104 del suo libro, ormai “le corporations redigono i programmi di studio”. Entrambi i libri parlano della situazione negli USA, ma non è difficile immaginare che prima o poi cose del genere si produrranno anche nel nostro paese: basti pensare a come le scuole siano sempre più oppresse da ristrettezze economiche, per capire che le resistenze a questo tipo di pratiche, resistenze che indubbiamente in Italia ci sono e forti, tenderanno sempre più ad essere sommerse dalle necessità finanziarie.
Lasciamo ai lettori di scoprire, leggendo questi due libri, le tecniche e le strategie di marketing delle corporations nella loro marcia verso la conquista dell'infanzia.
Quello che mi preme è rilevare come una generazione educata al consumismo compulsivo avrà difficoltà, una volta cresciuta, a pensare una società alternativa a quella appunto consumistica. Più in profondità, riprendendo un'osservazione di Massimo Bontempelli (di cui adesso non so ritrovare il luogo), è probabile che un'educazione costruita sull' “usa e getta” consumistico abbia difficoltà a darsi della basi caratteriali solide per la vita, e tenda a creare personalità conformistiche e deboli. E' solo un'intuizione, ma è probabile che qui ci sia una parte della risposta al “perché la gente non si ribella”. In ogni caso, è chiaro che, perseguendo il proprio profitto nei modi descritti in questi due libri, le corporations stanno lavorando “alle spalle dei rivoluzionari”: mentre questi ultimi si sforzano di produrre discorsi razionali per convincere gli adulti, il capitalismo assoluto sta conquistando l'anima dei nostri figli.
(M.B.)


Questo post viene pubblicato anche su "Appello al popolo": http://www.appelloalpopolo.it/?p=11032

mercoledì 2 aprile 2014

Come i contratti flessibili abbattono la produttività del lavoro

Ci dicono continuamente che l'Italia deve tornare competitiva. In nome appunto della competitivià, in questi anni il ceto politico ha fatto completo strame dei diritti del lavoro. Quali risultati sono stati ottenuti?
Paolo Pini ci spiega come l'unico effetto della tempesta "riformatrice" degli ultimi anni è stato un crollo generalizzato della produttività del lavoro. I dati del resto sono impressionanti. Ecco la crescita annua (2000-2012) per ora lavorata secondo l'OCSE.


Ed ecco il parallelo, svolto in un altro articolo di Pini, tra interventi normativi che creano precarietà e produttività del lavoro.


Qualcuno potrebbe chiedersi: ma almeno la flessibilità del lavoro avrà  ridotto la disoccupazione? Chi avesse bisogno di delucidazioni, e non si accontenta di quel che vediamo con i nostri occhi ogni giorno, può leggere questo.
Come mai si verifica questo fenomeno? In estrema sintesi, ciò avviene perché le imprese, godendo dello strumento della flessibilità del lavoro, con tutto ciò che ne consegue anche per il salario, perdono lo stimolo ad investire. La spinta a innovare proviene anche dall'impossibilità di aumentare i profitti semplicemente "schiacciando" i lavoratori. Le rivendicazioni di questi ultimi potrebbero riassunte come il vincolo interno alle scelte degli imprenditori. Vincolo che il ceto politico ha indebolito fin quasi a farlo sparire, esattamente negli anni in cui si cementava il vincolo esterno. (C.M.)