mercoledì 2 aprile 2014

Come i contratti flessibili abbattono la produttività del lavoro

Ci dicono continuamente che l'Italia deve tornare competitiva. In nome appunto della competitivià, in questi anni il ceto politico ha fatto completo strame dei diritti del lavoro. Quali risultati sono stati ottenuti?
Paolo Pini ci spiega come l'unico effetto della tempesta "riformatrice" degli ultimi anni è stato un crollo generalizzato della produttività del lavoro. I dati del resto sono impressionanti. Ecco la crescita annua (2000-2012) per ora lavorata secondo l'OCSE.


Ed ecco il parallelo, svolto in un altro articolo di Pini, tra interventi normativi che creano precarietà e produttività del lavoro.


Qualcuno potrebbe chiedersi: ma almeno la flessibilità del lavoro avrà  ridotto la disoccupazione? Chi avesse bisogno di delucidazioni, e non si accontenta di quel che vediamo con i nostri occhi ogni giorno, può leggere questo.
Come mai si verifica questo fenomeno? In estrema sintesi, ciò avviene perché le imprese, godendo dello strumento della flessibilità del lavoro, con tutto ciò che ne consegue anche per il salario, perdono lo stimolo ad investire. La spinta a innovare proviene anche dall'impossibilità di aumentare i profitti semplicemente "schiacciando" i lavoratori. Le rivendicazioni di questi ultimi potrebbero riassunte come il vincolo interno alle scelte degli imprenditori. Vincolo che il ceto politico ha indebolito fin quasi a farlo sparire, esattamente negli anni in cui si cementava il vincolo esterno. (C.M.)


18 commenti:

  1. E se invece il problema fosse la stessa spasmodica ricerca della produttività, indotta dalla competitività globale?
    Basterebeb riflettere che più alta produttività significa più oggetti prodotti per addetto e per unità di tempo, e quindi o aumentiamo il numeratore, e distruggiamo più risorse ambientali, o diminuiamo gli addetti ed andiamo incontro a disoccupazione crescente.
    Francamente, a me di diminuire il costo in manodopera del singolo prodotto, non frega per niente. Ma naturalmente, ciò richiede la sovranità nazionale e la possibilità di controllare il flusso di capitali e merci, che permetta di non rimanere vittima della competitività globale, e torniamo ai problemi di carattere generale.

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    1. Certo, aumentare i prezzi non è un problema, se aumentano anche le retribuzioni. Il problema è l'import/export. Ma se si mettesse sotto controllo pubblico, anche questo aspetto andrebbe a posto. Ma stiamo discutendo con i "se". Il fatto è che il sistema mondiale nel quale siamo inseriti va nella direzione esattamente opposta.

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    2. Tra l'altro, a questo proposito, segnalo l'ultimo libro di Luciano Gallino, Vite rinviate.

      "Il lavoro flessibile produce occupazione: è la promessa miracolosa che ha legittimato il progressivo smantellamento delle tutele del lavoro. La realtà è diversa, molto diversa.

      La flessibilità produce profonde disuguaglianze e ha costipersonali e sociali che non si possono sottacere. Costa prospettive di carriera professionale. Costa percorsi formativi iniziati e interrotti. Costa rapporti familiari instabili. Costa fatica fisica e nervosa per il continuo riadattamento a un nuovo contesto. Ma ancor più costa alla persona, per la sensazione rinnovata ogni giorno che la propria esistenza dipenda da altri. Costa la certezza amara che non è possibile guidare la propria vita come si vorrebbe, o come si pensa d’aver diritto di fare. Costa la comprensione che la libertà è alla prova dei fatti una parola priva di senso."

      http://www.laterza.it/index.php?option=com_laterza&Itemid=97&task=schedalibro&isbn=9788858111642

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    3. Francesco, se si tratta di adeguarsi al mondo così com'è, non v'è bisogno di fare politica, basta eseguire pedissequamente gli ordini che riceviamo. Peccato che oggi questo adeguarsi corrisponda a suicidarsi, ma naturalmente anche questa è una scelta rispettabile, anche se io, sempre se permetti, vorrei fare una scelta differente.

      Io comunque non chiedo di inseguire i prezzi col salario, dico piuttosto che dobbiamo avere piena occupazione, che l'economia dev'essere al servizio dell'uomo, e non il contrario.
      Vorrà dire che avremo un livello di benessere compatibile con questo regime di piena occupazione e con la disponibilità di risorse naturali esistenti.
      La chiamano sostenibilità che per un frequentatore di questo blog non dovrebbe essere una parola sconosciuta.

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    4. Caro Vincenzo, anche io voglio un mondo in cui i rapporti sociali siano differenti. Voglio solamente dire che bisogna chiarirsi sugli orizzonti. Se si resta in un orizzonte capitalista, il problema dell'occupazione dipende dagli investimenti. C'è un caso della storia italiana che è molto significativo e che Graziani racconta benissimo. Si tratta della crisi del '63. Eravamo un paese considerato "sovrano", nel senso che si attribuisce oggi a questo termine. Cosa accadde? Dopo una prima fase di sviluppo, salari e occupazione cominciarono a crescere. L'emigrazione, che era un fenomeno importante, cominciò a rallentare proprio perché aumentava l'occupazione nelle fabbriche del nord. Quali furono le contromosse? La Banca d'Italia, sovrana, aumentò enormemente il tasso di sconto, il costo del denaro cioè. Perché? Per scoraggiare gli investimenti. Che infatti crollarono e la disoccupazione ricominciò a crescere. Per piegare i lavoratori e i sindacati. La struttura industriale dell'epoca era per buona parte pubblica all'epoca. Perché le industrie pubbliche non investirono, si chiede Graziani? Perché tutto rientrava nello stesso disegno, ovviamente. Che si può sintetizzare in "sciopero degli investimenti" e attacco alla piena occupazione e alle rivendicazioni. C'è un importante economista polacco che ha teorizzato tutto questo. SI chiama Kalecki. Le politiche di piena occupazione, al di là dell'aspetto puramente economico, non si perseguono per un fatto politico. I lavoratori diventano pericolosi per il capitale.

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    5. Caro Vincenzo, anche io voglio rapporti sociali differenti da questi. Dobbiamo però intenderci sugli orizzonti. Mi spiego. Se consideriamo il capitalismo come il sistema di relazioni sociali ed economiche, questo ha le sue dinamiche. Non basta il concetto di “sovranità” per risolvere i problemi di cui si parla. L’occupazione dipende essenzialmente dagli investimenti. Se non ci sono investimenti, non ci sarà mai crescita dell’occupazione, casomai una decrescita. Per spiegare il mio punto di vista, voglio citare un momento storico del passato, cioè della crisi del ’63, così bene raccontata e spiegata da Augusto Graziani. Erano anni di grande sviluppo per l’Italia, i mitici anni ’60. E l’Italia era un paese “sovrano”, nel significato che oggi si attribuisce a questo termine. Ebbene, la Banca d’Italia alzò enormemente il tasso di interesse, il costo del denaro. Perché? Per scoraggiare gli investimenti. Stava accadendo in quegli anni che i salari crescevano e che la disoccupazione diminuiva. Anche l’emigrazione, fenomeno rilevantissimo della nostra storia, aveva invertito la tendenza, i contadini del sud trovavano impiego nel triangolo industriale. Ma allora, perché scoraggiare gli investimenti di un’economia in sviluppo? Semplice, per aumentare il tasso di disoccupazione e indebolire la forza dei lavoratori e dei sindacati. C’era un’ampia struttura industriale pubblica all’epoca. Perché non investì compensando la riduzione del privato? Semplice, si risponde Graziani, perché Banca d’Italia, Confindustria e il settore pubblico facevano parte di un’unica strategia, “sciopero degli investimenti”. Come vedi, non basta dire “sovranità”. C’è un grande economista polacco, Kalecki, che l’ha teorizzato questo fenomeno. Il capitalismo, indipendentemente dai calcoli di convenienza economica, non attuerà mai politiche di piena occupazione. Perché i lavoratori diventano un pericolo per il Capitale.

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  2. Secondo me ci si deve, anzi, è obbligatorio, mettersi nell'ottica che tutto quello che hanno fatto negli ultimi dodici anni, oddio che numero ... 12, in ogni modo, dal 2001 è in corso una guerra per riportare il mondo nel medioevo tecnocratico, il Feudalesimo mai come oggi è stato attivo e presente. Non è un caso che ai cinesi abbiano aperto le frontiere in tutto il mondo, ora abbiamo un miliardo di persone in più con cui competere e che lavorano quindici ore al giorno per duecento dollari ... o vengono qui e ne prendono seicento e sono ricchi, sic!!!!
    Avete letto, per esempio, questo?
    http://www.comedonchisciotte.org/site//modules.php?name=News&file=article&sid=13163

    Riflettete cari miei ...

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  3. C'è un fatto molto semplice da comprendere. Se il costo del lavoro è basso, non conviene l'automazione ma il lavoro manuale. E' banale, ma è così. Ma il grosso crollo della produttività è legato moltissimo al crollo degli investimenti. Le cose si legano, perché è noto che quando aumentano gli investimenti, aumentano anche le retribuzioni. Insomma, se non ci sono investimenti è come parlare del nulla, dell'antimateria.

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  4. Chiedetevi perché il Pd non vuole aiutare gli italiani

    Mistero: ma perché quelli del Pd non propongono mai nessuna vera via d’uscita dalla crisi? Due ipotesi: sono semplicemente cretini, oppure sono stati comprati. Il professor Guido Ortona, che insegna all’università del Piemonte Orientale, propende per la seconda ipotesi: «E’ molto plausibile che il Pd si sia venduto ai padroni», sia pure «padroni di tipo nuovo, diversi dai loschi commendatori di un tempo».

    E la stessa Sel, ovvero «l’unico partito di sinistra che rimane», dimostra «una analoga mancanza di coraggio nel fare proposte chiare» per uscire dal tunnel. Un critico come Paolo Barnard invita a rileggere lo spietato “memorandum” dell’avvocato d’affari Lewis Powell, incaricato già all’inizio degli anni ‘70 – dalla destra americana – di risolvere il “problema” della sinistra. La ricetta di Powell? Semplicissima: “comprare” i generali nemici costa molto meno che sostenere una guerra contro i loro eserciti. Dunque: stroncare la sinistra radicale – politica e sindacale – e “addomesticare” la sinistra riformista, in modo che rinunci a difendere i diritti sociali.

    «Nessuna componente del Pd sta mettendo al centro del suo programma politico delle proposte per uscire dalla crisi», premette Ortona in un post su “Goofynomics”. «La cosa è tanto più strana», perché «nella cultura economica della sinistra queste proposte invece non solo esistono, ma sono ovvie». Come spiegare questo silenzio? «Non è sufficiente invocare la stupidità, la corruzione e l’ignoranza dei politici del Pd, che sono peraltro sotto gli occhi di tutti», perché «essere ignoranti e stupidi può essere non tanto un caso quanto una scelta, come lo è ovviamente essere corrotti».

    Per Ortona, le conseguenze del massacro sociale in atto – per volere dell’élite oligarchica che regge l’Unione Europea – non sono che «ovvietà storiche ed economiche». La prima: non è mai esistita un’economia capitalistica basata solo sull’efficienza dei mercati. E’ sempre stato necessario un poderoso intervento dello Stato, declinabile in due modi: politica monetaria (espandere l’offerta di moneta e/o operare sui tassi di cambio) o politica fiscale (espandere il debito pubblico e/o trasferire redditi mediante politiche redistributive). Problema: una politica monetaria espansiva «è resa impossibile dalla partecipazione all’euro», mentre una politica fiscale espansiva è bloccata «dal livello del debito pubblico».

    In queste condizioni, quindi, «non si può uscire dalla crisi». Anzi, «la crisi è destinata ad aggravarsi, perché ogni anno lo Stato sottrae alcune decine di miliardi al circuito economico per pagare gli interessi sul debito». “Sottrae”, perché la maggior parte del debito è sottoscritto dal sistema bancario internazionale; solo per un settimo circa è in mano alle famiglie italiane. «Ciò significa che gli interessi pagati non stimolano la domanda italiana se non in minima parte, a differenza per esempio del Giappone, dove il debito è quasi tutto in mano a cittadini giapponesi, e quindi il pagamento di interessi si traduce quasi solo nella trasformazione di domanda pubblica in domanda privata».

    Verità palesi, eppure negate – senza timore del ridicolo – da chi, come lo stesso Renzi, continua a sostenere che per uscire dal disastro basti tagliare la spesa pubblica (proprio come vogliono le super-lobby) senza fare alcuna politica monetaria, ovvero senza uscire dall’euro o trasformarlo in moneta sovrana. «Dato che nessuno può sostenere quanto sopra in buona fede, abbiamo un primo indizio per risolvere il mistero: in realtà il Pd non vuole uscire dalla crisi». Già, ma perché?

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  5. La Grande Restaurazione di Matteo Renzi

    Un po’ alla volta pressoché tutti i quotidiani, dal Corriere della Sera al Messaggero, dalla Stampa al Mattino, dal Giornale al Foglio, compresa, con qualche distinguo, la Repubblica, si allineano alla nuova onda “riformatrice”. Del resto, se si è allineata, tutto sommato in modo ubbidiente e pronto, l’Unità, perché gli altri organi di stampa dovrebbero esprimere dubbi su quello che sta accadendo? Resistono, Il Fatto Quotidiano e, naturalmente, il Manifesto.

    E, con altri minori, questo spazio sulla Rete, ultimo ridotto di quelli che la stampa allineata sta apostrofando con la solita trivialità “sacerdoti della Costituzione”, “ayatollah del conservatorismo”, “custodi del sacro Verbo”, “soloni fuori tempo massimo” e via seguitando. …

    Ebbene, le “riforme istituzionali”, che il prode Matteo si appresta a realizzare, con metodi duceschi, sono state invocate da potenti gruppi finanziari da decenni, e sono state preparate dagli “opinionisti” mainstream, i quali su giornali e attraverso il megafono più possente degli altri media, la tv in particolare, hanno finto di scambiare la causa con gli effetti. Il novitismo, il nuovismo, il riformismo, il decisionismo, la governabilità, la necessità di “svecchiare”, che con Renzi ha assunto gli odiosi toni generazionali (la “rottamazione” degli anziani), sono parole d’ordine che hanno imperversato fin dai nefasti anni Ottanta, in particolare sotto l’imperio di Bettino Craxi, da cui discende Silvio Berlusconi, del quale erede innaturale, ma reale è proprio Matteo Renzi. Era stato quello “il ventennio populista”.

    (Nessun accenno naturalmente da parte di Angelo d’Orsi a Grillo e al Mov5*)

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    1. vabbè ma a questi pezzi si dovrebbe sempre rispondere con:

      " Ma piuttosto che un giovane ultraliberista non sarebbe meglio un 80enne keynesiano?"

      Non è mia.

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  6. concordo appieno con quanto dice Francesco: "se il costo del lavoro è basso, non conviene l'automazione ma il lavoro manuale.... ed... il grosso crollo della produttività è legato moltissimo al crollo degli investimenti.

    aggiungo:

    (1) in condizioni di precarietà e "spremitura spinta" il lavoratore perde completamente amore per il lavoro che svolge nonchè - spesso - rispetto e considerazione per se stesso. finisce col fare quel che fa giusto perchè deve, come l'ingranaggio d'una macchina... e la passione per quello che si fa è fondamentale per fare bene e meglio....

    (2) se sottopagato e con il fututo incerto, il lavoratore compra di meno, molto di meno, con le consequenze del caso.... non dimentichiamoci che due momenti d'oro per lo sviluppo del capitalismo, il quattrocento in europa occiddentale ed il secondo ottocento in america del nord, furono caratterizzati da alti salari, nel primo caso dopo la moria selettiva di lavoratori per la peste nera, nel secondo caso grazie alla disponibilità di terre a basso costo, capaci di assorbire i contadini europei emigranti in caso di scarsa retribuzione da parte delle aziende della costa orientale...

    davidhume

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    1. Nel primo caso, la schiavitù d'importo dall'africa risolse parecchi problemi......molto parecchi :-)

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  7. ottimi grafici. azzeccati. però ci si potrebbe aggiungere pure l'aggancio all'ECU con rivalutazione della lira del 96. effetto istantaneo!

    poi gli effetti di Treu e Biagi. Però tutte e 3 le cose.

    Questo serva di lezione a quelli che dicono che "ci vogliono anni perchè la ripresa si concretizzi...sarà moderata ma c'è" BALLE!

    Con le politiche giuste o sbagliate i cambiamenti in meglio o peggio si vedono un anno per l'altro.

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  8. Come mai si verifica questo fenomeno? In estrema sintesi, ciò avviene perché le imprese, godendo dello strumento della flessibilità del lavoro, con tutto ciò che ne consegue anche per il salario, perdono lo stimolo ad investire. La spinta a innovare proviene anche dall'impossibilità di aumentare i profitti semplicemente "schiacciando" i lavoratori.


    Se questo discorso avesse senso allora dovremmo considerare altrettanto valido anche il discorso di chi dice che con la moneta "svalutata" si disincentivano gli investimenti perchè le aziende riescono a stare sul mercato senza bisogno di investire, mentre la moneta forte incentiverebbe gli investimenti perchè sarebbero necessari per rimanere sul mercato. Non è forse la stessa la logica che c'è dietro i due ragionamenti?

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  9. Infatti entrambi i discorsi hanno senso. C'è però un terzo elemento, che in genere i sostenitori dll'euro (e dei cambi fissi) non prendono in considerazione. Qual è?

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    1. Storicamente, è accaduto proprio questo. Cioé, si sono sfruttati i cambi flessibili per tornare a produrre e esportare. Senza fare grandi investimenti in ricerca e senza grandi innovazioni. La storia italiana è questa. I cambi fissi non risolvono affatto questa condizione, quello che accade da vent'anni è la drammatica dimostrazione. E allora? Possiamo dire che ci sono condizioni necessarie. Ma che non bastano da sole. Perché senza affrontare il rapporto sociale tra capitale e lavoro in Italia, cioé quello specifico che si è andato creando nel tempo, la soluzione del problema non esiste.

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