lunedì 19 maggio 2014

Ancora sul ceto politico

Continuo il discorso sul ceto politico, iniziato in un paio di post di qualche tempo fa (questo e questo) che avevano suscitato un po' di dibattito fra i nostri lettori. Poiché alcuni passaggi di quei post erano forse un po' stringati, provo adesso ad argomentare le mie tesi in modo più disteso, cercando di inserirle nelle riflessioni che vado facendo da tempo.
Tempo addietro, in una serie di lavori scritti assieme a Massimo Bontempelli, (per esempio questo e questo) avevamo introdotto la nozione di “capitalismo assoluto”, con la quale cercavamo di esprimere quello che ci sembrava uno degli aspetti più significativi dell'attuale organizzazione sociale ed economica, il fatto cioè che negli ultimi decenni la logica capitalistica del profitto si è estesa all'intero ambito sociale. Riporto un passaggio tratto da “La Sinistra rivelata”, che sintetizza questi concetti:


“Si tratta della completa pervasività sociale del capitalismo storico (…) ogni aspetto della società umana, compresi i corpi biologici degli individui e i caratteri della loro personalità, viene sussunto sotto il capitale come materia della produzione capitalistica (…). Chiamiamo capitalismo assoluto il capitalismo storico che è penetrato in ogni poro e in ogni profondità della vita umana associata. Esso è assoluto perché la sua logica di funzionamento regge completamente ogni ambito della vita, senza più lasciare alcuna autonomia di scopi e di regole ad altre istituzioni. L'azienda, cioè l'istituzione che promuove la produzione e la circolazione della merci in funzione del profitto, diventa allora non più soltanto la cellula del sistema economico, ma l'alfa e l'omega della società, perché la società è diventata una società di mercato, in cui ogni bene pubblico è stato convertito in bene privato, e ogni bene privato in merce. Di conseguenza ogni istituzione viene concepita come azienda, persino l'ospedale, persino la scuola, e persino l'intero paese, che non è più nazione, ma azienda, l' “azienda-Italia”.
(M.Badiale-M.Bontempelli, La sinistra rivelata, Massari editore, pagg.171-172)”



L'esempio della scuola può forse far comprendere meglio la sostanza della questione. La scuola pubblica nazionale nasce nell'Ottocento come espressione delle borghesie liberal-nazionali, e ne esprime quindi i valori di fondo. Essa ha quindi un aspetto “conservatore” rispetto alle gerarchie sociali, aspetto che è stato ampiamente denunciato a partire dalla contestazione degli anni '60 del Novecento. Il punto fondamentale per capire la novità storica del capitalismo attuale è il seguente: i borghesi conservatori che nel XIX secolo creano la scuola pubblica nazionale vogliono certo farne una istituzione funzionale alla riproduzione di quel determinato assetto sociale. Ma non vogliono farne una azienda. L'idea che la scuola sia un'azienda, che la logica capitalistica del profitto debba  costituirne il fondamento, sarebbe sembrata ovviamente un'assurdità agli occhi dei liberali ottocenteschi. La scuola doveva sì funzionale alla riproduzione di un assetto sociale dato, ma la logica interna del suo funzionamento, con la quale espletava anche quella sua funzionalità, era rispettata nella sua autonomia. Lo stesso discorso si può ripetere per altri ambiti sociali. La novità storica della forma attuale del capitalismo, che lo differenzia dalle forme precedenti, è il fatto che ogni ambito sociale è costretto a funzionare non secondo la propria logica ma secondo la logica del profitto. Tutti gli ambiti sociali diventano aziende che devono produrre un profitto.
In questo inedita situazione il ruolo della politica subisce una serie di mutamenti che devono essere individuati con precisione per articolare una politica antisistemica. La cosa curiosa è che, in questa situazione, si possono fare, a proposito della politica, affermazioni apparentemente opposte, e che sono corrette (e non contraddittorie) pur di intenderle in modo adeguato. Si può infatti dire (e di fatto si sente molto spesso dire) che la politica non conta più nulla perché al comando della società c'è l'economia: e questa affermazione in effetti è in assonanza con quanto detto sopra, perché se la logica del profitto invade ogni ambito della società, quale spazio può mai restare per la politica? D'altra parte tutti gli eventi contemporanei (a livello locale, nazionale  e internazionale) ci dicono che il ceto politico è sempre al centro di una rete di potere che coinvolge l'intero ceto dominante. Ma se la politica non conta nulla, perché mai le oligarchie capitalistiche dovrebbero accettare di dividere i propri profitti con questo vorace ceto politico? Sembra quindi, da questo punto di vista,  che tale ceto conservi un suo ruolo essenziale, una sua centralità,  anche nella fase attuale del “capitalismo assoluto”.
Come ho detto sopra, penso che entrambe queste posizioni siano vere, pur di intenderle in senso opportuno. “La politica non conta più nulla” significa che essa non può più esprimere nessuna istanza che sia alternativa, ma anche solo relativamente autonoma, rispetto alla logica aziendale del profitto e della competitività. Di conseguenza la politica non è più il luogo dove si confrontano idee diverse sull'organizzazione della società e della vita collettiva. Si tratta di un fenomeno ben noto, da tempo descritto correttamente in termini di “pensiero unico”. Chiunque vada al potere in un paese occidentale è costretto nella ferrea logica dell'economia capitalistica e non ha quindi nessuna possibilità di compiere scelte effettive (se non impostando una coerente politica anticapitalistica, ma questo è ovviamente al di là dell'orizzonte mentale dei ceti politici contemporanei). D'altra parte, all'interno di questa dominanza “totalitaria” della logica capitalistica, il ceto politico conserva una sua funzione fondamentale, quella della mediazione e della persuasione, e questo in due sensi diversi. In primo luogo, nel momento in cui la logica capitalistica invade tutte le sfere dell'azione sociale, essa ha effetti destrutturanti sul funzionamento degli ambiti della vita umana. Tutto ciò fa nascere continuamente problemi ai quali non è possibile dare una risposta, all'interno dell'attuale configurazione sociale. Ma se non è possibile una risposta vera, bisogna almeno fare un'opera di mediazione e di convincimento. Gli insegnanti devono essere convinti ad accettare la distruzione della scuola pubblica. Gli abitanti delle zone devastate dalle “grandi opere” devono essere convinti ad accettarle, con qualche contentino. I lavoratori devono essere convinti ad accettare la continua riduzione dei diritti, i cittadini quella dei servizi. È questa una funzione fondamentale svolta dal ceto politico. Per usare una brutta espressione entrata nell'uso, i politici sono quelli che “ci mettono la faccia”.
In secondo luogo il ceto politico ha la funzione di mediazione fra i diversi strati dei ceti dominanti. Per fare affari con l'intero ambito della vita sociale occorre coinvolgere diverse competenze (amministrative, legali, tecniche), occorre mediare con gruppi di pressione molto diversi, mettere d'accordo diversi gruppi affaristici: e questo è naturalmente il lavoro del mediatore politico.
Questi aspetti della politica contemporanea, ovviamente, non rappresentano di per sé delle novità. La politica è sempre stata anche questo. La novità contemporanea sta nel fatto che oggi essa è solo questo. In altri tempi questi aspetti, pur presenti, erano subordinati a progetti diversi di società, a idee diverse e contrapposte sulla direzione da imprimere al movimento sociale. Oggi qualsiasi possibilità di una contrapposizione effettiva su questo piano è abolita, perché il movimento sociale è lasciato in balìa della dinamica capitalistica, e la politica si riduce esclusivamente a mediazione affaristica. Inoltre, nella sua affannosa ricerca di profitti in una situazione di sostanziale difficoltà nella crescita, di stagnazione, di rendimenti decrescenti, l'affarismo del ceto politico-imprenditoriale non può ovviamente fermarsi ai confini del lecito: l'illegalità è del tutto consustanziale a tale ceto, nella situazione attuale. Siamo cioè di fronte alla fusione di politica ed economia dentro un ceto dominante articolato in cordate affaristico-mafiose contrapposte, in lotta continua per la spartizione del bottino, e solidali nella conservazione dell'attuale organizzazione sociale (un filosofo marxista morto ere geologiche fa parlerebbe, credo, di “solidarietà antitetico-polare”).
Il malaffare, la corruzione diffusa a tutti i livelli sono solo l'aspetto più evidente e “spettacolare” della situazione che mi sono sforzato di descrivere.
Il problema fondamentale che ha di fronte chiunque voglia anche solo pensare ad una politica antisistemica, ad un percorso di mutamento di una organizzazione sociale ed economica che sembra destinata a trascinare l'umanità nell'abisso, il problema fondamentale, dicevo, è che qualsiasi idea di una politica alternativa si trova di fronte questo ceto politico saldamente installato in tutti i gangli del potere. Non è possibile anche solo pensare ad una prospettiva politica di salvezza se non ponendo come prima condizione l'eliminazione dell'attuale ceto politico, nella sua totalità. Dicendo che questa è la “prima condizione” non intendo dire che sia la cosa più importante, l'elemento caratterizzante di una politica anticapitalistica: intendo dire che è condizione necessaria, che è il primo passo da compiere, che se non si fa questo è impossibile fare qualsiasi altra cosa.
In questo senso l'atteggiamento di sufficienza con cui una parte del mondo “antagonista” guarda alle posizioni anti-casta del Movimento 5 Stelle mi sembra un errore di prospettiva. È vero che dire “no alla casta, no al ceto politico” non è un programma politico, e non dice nulla su cosa si vuol fare, dopo essersi liberati della “casta”. Ma è anche vero che questo è il primo passo che è necessario fare. In questo senso le posizioni critiche verso il “populismo anti-casta” mi ricordano le obiezioni che mi sono sentito sempre fare dai marxisti, quando discutevo del problema dell'euro: l'obiezione cioè che “il problema non è l'euro, ma il capitalismo”. Obiezione alla quale ho sempre risposto, fino ad averne la voce roca, che nessuno ha mai  combattuto contro quella astrazione che è il “capitalismo”: si combatte contro le forme concrete in cui esso si realizza nella storia. Qui ed ora (cioè: oggi in Italia) la forma concreta del dominio delle oligarchie capitalistiche è l'euro, ed è quindi contro l'euro che bisogna mobilitarsi. Allo stesso modo, il ceto politico attuale è lo strumento concreto della penetrazione capillare della logica capitalistica in ogni angolo della società. La lotta contro l'attuale “capitalismo assoluto” non può che iniziare come lotta intransigente contro l'intero ceto politico, che è l'ostacolo concreto ad ogni politica di indipendenza e sostegno ai ceti subalterni.
(Marino Badiale)

7 commenti:

  1. Anche se può sembrare naif, io non sono per nulla pessimista. Meglio dire, non sono né ottimista né pessimista. Non posso che essere d’accordo con l’affermazione che il capitalismo “si combatte contro le forme concrete in cui esso si realizza nella storia”.
    Per questo motivo occorre, per prima cosa, idee chiare sui meccanismi e sul modo con cui si riproduce. Ad esempio, che il Capitale (sua maestà) abbia la necessità intrinseca di espandersi e di invadere tutti gli aspetti della vita, non è un fenomeno trascurabile. Quindi che provi ad estendersi a tutte le forme di relazione sociale, è un fatto ineluttabile. Per dirla in un altro modo, è noto che per Marx il lavoro produttivo era anche quello della puttana, purché fosse gestita da un protettore che fosse in grado di estrarle plus-valore.
    Io ho una mia idea personale riguardo il welfare. Non diminuirà più di tanto perché dentro sono annegati interessi potenti. Basta ascoltare Gino Strada che dice che la sanità potrebbe costare un terzo, tutto il resto sono interessi privati, spesso multinazionali come le aziende del farmaco.
    Per continuare ad esaminare le forme concrete, è utile ascoltare quello che dice Brera, che è diventato famoso per aver scritto “Diavoli”, il mondo della finanza in un romanzo. Dice Brera che il neo-liberismo non è il “liberismo” che qualcuno crede, non è cioè un sistema lasciato a sé stesso, secondo la teoria darwiniana applicata al capitalismo (che non è un sistema naturale però ma un sistema di rapporti sociali). Il neo-liberismo è caratterizzato da un’attenta regia e da modalità decisionali centralizzate. Per funzionare, occorre un ruolo molto attivo dello Stato. Non meno Stato (queste corbellerie le lasciano dire a Oscar Giannino e a qualche editorialista), ma un ruolo molto attivo dell’elite del ceto politico. Basti pensare al passaggio di consegne tra Bush jr e Obama nella crisi del 2007. Oppure alla spesa pubblica. Keynes non è morto per niente, le politiche sono state improntate alla spesa pubblica perché il capitalismo senza debito non funziona.
    Dobbiamo incunearci nelle contraddizioni. Ce ne sono, non è vero che questo sistema è assoluto nel senso che è una macchina perfetta. Molto imperfetta invece, al di là del senso morale di giustizia. Cosa spinge, ad esempio, a far lavorare per dodici, tredici, anche quindici ore al giorno? Non sono solo gli schiavi di Rosarno o dell’Agro Pontino. Sono anche giovani italiani e non solo. Anche in Inghilterra si lavora sempre di più. Non è una ragione di conflitto questa? E non è il meccanismo inceppato? Perché è chiaro che è il funzionamento del sistema, per riprodursi, che necessita di spingere lo sfruttamento oltre il limite possibile.

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  2. Caro Badiale, in verità non me la sento di concordare con te.
    Dovremmo partire da cosa si intenda con l'espressione "eliminazione dell'attuale ceto politico". Escludendo evidentemente l'eliminazione fisica, rimane da capire come si elimina l'intero ceto politico, e prima ancora cosa si intenda esattamente con questa espressione.
    Basta sconfiggerli alle elezioni, sconfiggere l'universo dei candidati escluso il M5S?
    Non lo credo, proprio perchè costituiscono sistema, essi si riprodurrano, magari cambieranno nomi, sigle, facce, ma alla fine ciò che conta sono le modalità di funzionamento, modalità di organizzazine, di assunzione delle decisioni, di ricerca del consenso, di rapporto con i cittadini e così via.
    E' mia convinzione che considerando con questo, secondo me dovuto, approfondimento l'espressione che usi, il M5S ci stia tutto dentro il sistema politico, che esso ha avuto successo perchè si è perfettamente adeguato ai meccanismi di comunicazione che la società utilizza.
    Ciò insomma che dovremmo fare fuori non è questo o quel partito, ma il meccanismo stesso della politica e quindi ad esempio rifuggire dalla spettacolarizzazione della politica, e non mi pare che il M5S rifugga alcunchè di spettacolarizzato. Dovremmo evitare la banalizzazione, il praticare una comunicazione stringata, sintetica ed ambigua. Anche qui, il twittare di Renzi si confronta non coi libri di Grillo e Casaleggio, ma con la sloganista del blog di grillo, un programma che non dice nulla, una democrazia intesa in maniera caricaturale.
    Se non cambiamo i modi della politica, se non viene fuori un'avanguardia che abbia voglia di studiare, di confrontarsi, di fare comunità, di appropriarsi del territorio magari col porta a porta per cui sei conosciuto personalmente dalla gente, se non sei in grado di fare comunità, rinunciando se necessario a qualcosa del tuo punto di vista, discuti con lo spirito di trovare un punto di convergenza, non se ne esce, perchè non nelle declamazioni di principio ma nella prassi stiamo ancora interamente dentro il pensiero unico, l'ideologia liberale dominante.
    La risposta è meno banale di come si potrebbe credere, perchè il ceto politico è attualmente costituito da svariate decine di migliaia di persone, e considerando la loro sfera di influenza diretta (forme di parentela, di amicizia, di comunanza di interessi), probabilmente sfioriamo il milione di persone interessate.
    Generalmente, si dice "sconfiggere il tale partito alle elezioni", voi parlate invece di eliminazione dlel'intero ceto politico, così sottolineando

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    1. Mi sembrano considerazioni ragionevoli. Però io vorrei puntare sugli aspetti di sistema piuttosto che sulle modalità di comunicazione. Cioé, secondo me, questo ceto politico si riproduce in questo modo perché è funzionale ad un sistema. Altrimenti sarebbero spazzati via, come del resto è successo con la vicenda di Mani Pulite e con tutte le evoluzioni del PCI, ad esempio. Era funzionale a suo tempo, come sponda dell'imperialismo sovietico, è diventato sponda, quello che è rimasto, ai poteri forti della finanza multinazionali. Ognuno si ritaglia un ruolo che è funzionale a qualcosa, ad un gruppo di interessi. Sono questi i meccanismi da indagare, a mio avviso.

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  3. Scusate, nel pecedente mio commento, ho dimenticato di cancellare la coda del commento (a partire da "La risposta...", cioè l'ultimo capoverso).

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  4. Concordo totalmente. Di più, credo che la sostituzione del ceto politico debba rientrare in una più vasta operazione di sostituzione dell'intera classe dirigente italiana, imputridita da troppo tempo di permanenza al potere, senza altri meriti se non la cooptazione clientelare e/o nepotistica. La classe dirigente (di cui il ceto politico è un sottoinsieme) italiana ha fallito. Negli ultimi 20 anni ha pensato solo ad ingrassare e conservare il potere, alleandosi opportunisticamente anche con il diavolo (leggasi mafia e/o tecnocrazia europea), e fregandosene dell'interesse generale. Forse non sarà il M5S a compiere l'impresa, ma quell'obiettivo è esiziale per poter voltare finalmente pagina e provare a risalire la china.

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  5. Concordo con l'analisi di Badiale: il "ceto politico" ormai si è ridotto nel ruolo di "persuasore delle classi subordinate" e "mediatore tra gli interessi dei gruppi dominanti". Do anche per scontato ciò che scrive Francesco, cioè che in un paese a sovranità limitata come l'Italia uscita dalla WW2 (ricordo che siamo sempre uno "Stato Nemico", ai sensi dell'art 53 dello Statuto dell'ONU) il ceto politico italiano non può che essere avallato dal campo di forze dato dal paese egemone nella cui orbita l'Italia si trova (o del suo legato tedesco, in questo recente periodo storico).
    Alla luce di quanto detto, e lasciando per un attimo da parte quanto scritto da Vincenzo Cucinotta (pur pienamente condivisibile e ragionevole) non si capisce come ci si possa "sbarazzare di un ceto politico" che in quel campo di forze è continuamente rinnovabile e completamente sostituibile - anche in caso di repentino "vuoto di potere", semplicemente attraverso cooptazione: il caso del vuoto creato da Tangentopoli e fatto riempire alla sinistra nel '92 è appunto esemplare.
    Proviamo allora ad arrivare fino in fondo al ragionamento sviluppato da Badiale. L'eliminazione - già la parola è indicativa: non sostituzione, cambio, avvicendamento - nei termine dati può essere ottenuta solo con una rivoluzione, ovvero un radicale e repentino cambio non solo del ceto politico ma anche del campo vettoriale e dei rapporti di forza che lo sostengono; in assenza di tale atto rivoluzionario, il continuo "catch up" del nuovo ceto nel vecchio frame sarebbe certo. A sua volta una rivoluzione del genere richiederebbe un ampio, e largamente maggioritario, sostegno popolare.

    Alla luce di quanto detto, non posso fare a meno di pensare che la tattica (o strategia?) dell'appoggio ai grillini assomigli tanto ad un wishful thinking che mette il carro avanti ai buoi: il M5S, se anche si avvia a diventare primo partito alle europee, non ha un ampio e maggioritario sostegno popolare - non supererà un terzo dei votanti, molti dei quali votanti di "opinione", elettori occasionali per protesta.
    Ammesso e niente affatto concesso che il M5S al campo di forze di cui si parlava all'inizio si voglia sottrarre (qui l'analisi è agli antipodi tra noi)...
    Ammesso che il campo di forze non faccia nulla per recuperare...
    In assenza di un ampio sostegno popolare, immagino che si punti a sfruttare il vuoto di potere successivo allo sgretolamento del PD: si assume che il M5S possa diventare assolutamente maggioritario, o che forze popolari e democratiche si possano sfruttare proficuamente la situazione. Qui siamo alla pura speranza: una forza popolare - e in Italia non c'è nulla del genere, siamo in ritardo di anni sugli eventi -non si sviluppa in una notte e i vuoti tendono ad essere riempiti da chi ha i mezzi per farlo, nel qual caso, qualsiasi margine di manovra si troverebbe schiacciato dal M5S. Ci si troverebbe guidati da un movimento che non ha la minima capacità di elaborazione del contesto in cui ci troviamo e idee molto confuse su dove andare, dato che ad oggi la sua direzione (?) non ha prodotto molto altro rispetto alla narrativa della castacriccacorruzione. In un contesto di totale opacità e assenza di pratiche democratiche interne nel proprio "ceto dirigente" (che poi sono Grillo e Casaleggio).

    Temo che l'analisi di Fraioli colga nel vivo le velleità dall'Illinois: in questa simpatica area degli USA si scommette nella rivoluzione come riflesso condizionato, perchè è pur sempre l'occasione della palingenesi e della catarsi.
    Se vivessi in un altro paese, vi augurerei In bocca al lupo.

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  6. "Se non cambiamo i modi della politica, se non viene fuori un'avanguardia che abbia voglia di studiare, di confrontarsi, di fare comunità, di appropriarsi del territorio magari col porta a porta per cui sei conosciuto personalmente dalla gente, se non sei in grado di fare comunità, rinunciando se necessario a qualcosa del tuo punto di vista, discuti con lo spirito di trovare un punto di convergenza, non se ne esce, perchè non nelle declamazioni di principio ma nella prassi stiamo ancora interamente dentro il pensiero unico, l'ideologia liberale dominante."

    Sono pienamente d'accordo.

    Non credo che esistano "grandi soluzioni" in questo momento, ma certamente quello che possiamo fare è organizzarci dove possibile, per obbligare i politici a rendere conto continuamente alla comunità.

    Innanzitutto si deve creare comunità, attorno al territorio in cui viviamo. Unire le diverse anime e storie. Risolvere il più possibile da noi i nostri problemi. Solo quando si ama qualcosa, ha senso combattere per difenderlo: e lì, in un secondo momento, nasce anche la protesta.

    Che deve essere sempre molto concreta, mirata a cose specifiche, basata su un serio lavoro di documentazione: innanzitutto bisogna obbligare le istituzioni a consultarsi, a rispondere, a darci ogni informazione.

    Ciò ovviamente vale a livello locale - onestamente non ho idea di come si possano affrontare i grandi problemi transnazionali, ma il principio è sempre quello della democrazia attiva e costruttiva.

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