martedì 30 settembre 2014

Renzi e la scuola

Riceviamo e pubblichiamo questo intervento di Paolo Di Remigio, docente di Storia e Filosofia presso il Liceo Classico "Delfico" di Teramo
 
OSSERVAZIONI SUL RAPPORTO RENZI-GIANNINI
Paolo Di Remigio
Dopo aver ammesso il «rischio che le nuove funzioni legate all'autonomia abbiano distolto l'attenzione dalla relazione con lo studente» (p. 47), il Rapporto firmato da Renzi e Giannini, La buona scuola, lungi dal ricusare o almeno ripensare l'autonomia scolastica, proclama di volerla «realizzare pienamente» (p. 62). Così suscita il dubbio che essa sia un errore tecnico intenzionale e appartenga alla serie di riforme che, ad onta dell'augurio contenuto nel nome, mirano soltanto ad «attenuare quel diaframma di protezioni che nel corso del Ventesimo secolo hanno progressivamente allontanato l'individuo dal contatto diretto con la durezza del vivere …», per ripristinare il mondo di cinquanta, cento anni fa, in cui «il lavoro era necessità; la buona salute, dono del Signore; la cura del vecchio, atto di pietà familiare; la promozione in ufficio, riconoscimento di un merito; il titolo di studio o l'apprendistato di mestiere, costoso investimento» (sono le parole austere dell'europeista Padoa Schioppa in un articolo sul Corriere della Sera del 26 agosto 2003).


     Di fatto la legge sull'autonomia scolastica dell'8 marzo 1999, anziché determinare finalità culturali o pedagogiche, si limita ad estendere all'area dell'istruzione il principio di sussidiarietà (cfr. p. 64 del Rapporto). Sebbene caldeggiato anche dalla sinistra, si tratta di un principio schiettamente liberale: identificato lo Stato al Leviatano feudale oppressivo della libertà individuale e perturbatore del mercato, questo principio esige che esso ceda le sue competenze alla periferia (ai corpi intermedi di Montesquieu) e si ammansisca in una funzione appunto sussidiaria. La storia europea mostra però che nella seconda metà del secolo XIX gli Stati passano dalla connivenza col privilegio feudale a quella con la proprietà capitalistica; e poiché la libertà esaltata dal liberalismo consiste soprattutto nell'esercizio della proprietà privata entro il meccanismo di mercato, il suo programma risulta attuato da un secolo e mezzo, e si fatica a comprendere come possa ancora sopravvivere. È la storia del secondo Novecento a soccorrere la comprensione: per evitare le crisi devastanti di un'economia regolata soltanto dal mercato, lo Stato si fa liberal-democratico e interviene nell'economia a fini anticiclici, con conseguenze redistributive del reddito. A questo punto risorge la polemica liberale contro lo Stato; poiché però lo Stato è ormai espressione non dell'aristocrazia feudale, del tutto estinta, ma della volontà dei cittadini e ha il fine di garantirne anche i diritti sociali, di schiettamente liberale questa polemica ha soltanto l'apparenza: nella sua essenza essa è neoliberalismo antidemocratico. In definitiva, non meno della cessione di sovranità statale a burocrazie sovrastatali, per esempio a quelle dell'Eurozona, il principio di sussidiarietà funge soltanto da contenuto manifesto del sogno neoliberale, il cui pensiero latente è la doppia pulsione a smantellare il welfare state e a spogliare il lavoro dei diritti garantiti dalle costituzioni democratiche. La scuola pubblica, in quanto realizza il diritto allo studio garantito dallo Stato democratico, è dunque colpita alla radice dall'imposizione di questo principio. Nel renderla autonoma esso la traveste da azienda privata e la indirizza verso esigenze inavvertite e tecnicamente incomprensibili: 1) burocratizzare e sindacalizzare la didattica sfigurandola in un groviglio di rapporti di diritto privato: offerta formativa, contratto formativo, debiti, crediti, griglie di valutazione; soffocandola col proliferare sterile dei dipartimenti, dei consigli, delle commissioni, dei gruppi di lavoro, degli inutili coordinatori, delle oziose funzioni-obiettivo e dei loro illeggibili piani e consuntivi; 2) porre in competizione mercantile gli istituti scolastici, così da indurli a incrementare la loro clientela carezzandone i desideri con il fantasioso ventaglio di attività nuove e divertenti e con l'aspettativa del successo senza fatica; 3) dissolvere la didattica severa, volta alle competenze scientifiche, e sostituirla con la didattica innovativa e flessibile, dispersa nei progetti improvvisati, diretta a sviluppare il tipo antropologico dell'homo precarius.
     La conseguenza di queste trasformazioni, documentate dalle indagini degli organismi internazionali, è che a 15 anni dalla riforma gli studenti italiani non padroneggiano né l'italiano né le lingue straniere né la matematica né le scienze.
     Proprio come Renzi affronta la catastrofe economica provocata dalla moneta unica con la fede nella moneta unica, cioè lascia desertificare l'economia italiana per imporre la flessibilità totale, allo stesso modo il suo Rapporto, insensibile al contrasto acclarato tra competenza e riforma, affronta la catastrofe didattica provocata dall'autonomia con la fede nell'autonomia, cioè lascia sprofondare ancora di più la scuola per farne un ibrido tra l'ospizio e la palestra di flessibilità per la gioventù. Non poteva essere altrimenti, perché i compilatori volevano moltiplicare le sbalorditive possibilità della Buona Scuola, non potevano rispettare le umili necessità della scuola: la scienza, la severità, l'amore per i giovani. Così, tirando le orecchie ai docenti con indulgenza paternalistica (già il sottotitolo suggerisce che la recessione sia da imputare alla loro inerzia) e senza rilevare colpa alcuna nelle riforme dei governi, dopo essersi diffuso in eroiche promesse di assunzioni, che certo offriranno alle forze sindacali un alibi per l'ennesima ritirata, il Rapporto, in una retorica affine a quella dell'uomo nuovo, emana una processione di idee, ognuna delle quali è un incastro ingegnoso tra umiliazione degli insegnanti e sabotaggio della scuola: 1. il raccordo di questa all'impresa, in base alla certezza incrollabile che l'occupazione dipenda dall'istruzione anziché dalle scelte di politica economica; 2. un ulteriore ampliamento dell'offerta formativa e una più forte spinta a improvvisare innovazione didattica, a scapito del laborioso concentrarsi sulle competenze scientifiche; 3. un meccanismo di progressione di carriera che estende la fallimentare competitività dagli istituti agli insegnanti; 4. l'esasperazione della loro mobilità; 5. una valutazione della didattica che, esauritesi le energie nel raccomandare l'ampliamento dell'offerta formativa e l'innovazione, giunge senza fiato a riconoscere come suo centro i risultati degli studenti (solo a p. 66) e infine rifluisce in nuove incombenze burocratiche.
     Il Rapporto Renzi-Giannini si inserisce nell'ambito della riforma dell'autonomia scolastica; questa riforma non ha fondamenti pedagogici né culturali: segue dal piano neoliberista di distruzione dello stato democratico; ma la scuola è il cuore stesso dello stato democratico; il processo che vi realizza l'autonomia è così la via crucis della sua degenerazione.

9 commenti:

  1. Intanto nella nuova scuola dove sono stato trasferito d'ufficio in quanto perdente posto (in seguito alla trasformazione della mia materia di insegnamento da indirizzo specialistico a generico, con perdita del 40% delle ore), ci sono sì le LIM, ma queste in molti casi non funzionano. E non ci sono più nemmeno le lavagne tradizionali perché, a loro dire, rovinerebbero le LIM. Dunque sono costretto ad insegnare senza LIM e senza lavagne tradizionali.

    Risulta impossibile risolvere il problema perché, a fronte di una crescita della dotazione tecnologica delle scuole (LIM e laboratori di informatica) non si è pensato a introdurre nell'organizzazione scolastica nuove figure, con ruoli e professionalità opportune, che gestiscano tale complessità tecnologica. Se ne occupano bidelli perdenti posto, addetti all'ufficio tecnico, figure strumentali senza le necessarie competenze, qualche professore di (ancora) buona volontà.

    Resta il fatto che, alla soglia dei 60 anni, io mi trovo a insegnare materie tecniche senza disporre di una lavagna, di qualsiasi genere. Sembra, per altro, che a molti miei colleghi il problema appaia di poco conto, essendo per essi molto più importante il fatto che ragazzini di 14/15 anni siano un po' indisciplinati.

    Se sentirete di un prof che è impazzito, ed è andato a scuola con una mazza da baseball a spaccare tutto, ebbene quello potrei essere io.

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    1. Nel mondo normale acquisire un nuovo strumento non implica disfarsi dei vecchi; è un'ovvietà che in certe applicazioni questi possono restare più funzionali: in supermercato troviamo ancora i pezzi di sapone per il bucato a mano dopo più di mezzo secolo dalla diffusione della lavatrice. Nella scuola autonoma il nuovo strumento scaccia subito il vecchio perché ha una funzione solo ideologica: serve a dire che siamo in un mondo nuovo in cui non è più vero niente e bisogna reinventarsi ogni giorno da capo, fino a scrivere sul muro col proprio sangue. Di Remigio

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    2. in una scuola che non ha i soldi per le fotocopie e la carta igienica, hanno ben pensato di ingolfarsi di LIM e altri gingilli cinesi con vita media 1-2 anni, cosicché risulti impossibile fare attività didattica oltre tale data. Se l'avessero proposto a me, di sostituire le lavagne tradizionali con le LIM, avrei rispedito tutto indietro a calci. Ma immagino che non ci sia stata scelta. Soprattutto perché, ovviamente, l'obiettivo di accalappiare nuovi studenti sul "mercato" (delle vacche?), è raggiungibile molto meglio se la dotazione tecnologia, almeno sui depliant, è all'avanguardia. Non ci sono i fondi per gestire questa robaccia? Dettagli, si deve fare! Mi dispiace molto per questa situazione, che io vivo solo da osservatore.

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  2. La nuova scuola è quella dove si sviliscono i saperi, dove le discipline assumono carattere residuale in nome dell'estemporaneità dei mille 'progetti' spesso irrazionali, quasi sempre inutili. È la scuola della desertificazione culturale, quella dove si obbliga un docente ad insegnare la propria disciplina, filosofia, biologia o matematica, in una lingua che non sa e e poco importa se non la sa: la deve insegnare lo stesso, anche se sprovvisto della certificazione C1 prevista, la stessa, per intenderci, richiesta ad un docente di lingua straniera, che tale certificazione ha ottenuto dopo anni di specifica preparazione universitaria e di soggiorni all'estero. Questo perché ' è l'Europa che ce lo chiede'. Pazienza se rischi di fare una figura meschina davanti ai tuoi aliievi, pazienza se la specificità, la profondità e la complessità della tua disciplina vadano a farsi benedire... quello che conta è stare al passo coi tempi, aggiornarsi e cercare di sentirsi meno inadeguati, magari correndo ad iscriversi ad uno di quei corsi di 80 ore organizzati da enti sconosciuti dove alla fine avrai imparato che 'de cat is on de teibol' e 'the grass is grin'' Poco importa se la lingua ufficiale del nostro paese è l'italiano e se uno studente abbia il diritto di ricevere ĺ'insegnamento di una disciplina non linguistica nella propria lingua madre, come ha stabilito una sentenza della corte costituzionale del 1998. Non ci si crederà, ma è questo il contesto con il quale noi insegnanti siamo costretti a confrontarci giornalmente! La distruzione della scuola è solo una parte del progetto più ampio dell'annullamento dello stato sociale. Letta in quest'ottica, l'assurdità di quello che viviamo è un po' piu comprensibile: non si può continuare a pensare che è solo colpa dell'incompetenza di chi ci governa.....

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    1. la sua è una considerazione a cui non avevo mai pensato e non di poco conto, al pari di quelle trattate dall'articolo di Di Remigio; non pensavo che l'attacco alla scuola pubblica fosse così profondo!

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    2. Alludi alla iniziativa del Miur di imporre nell'ultimo anno di liceo la metodologia CLIL in completa assenza dei prerequisiti indispensabili alla sua efficacia: manca l'introduzione precoce (dalla Scuola Materna!), manca l'immersione totale, mancano gli insegnanti di madrelingua o almeno gli insegnati che padroneggino perfettamente, oltre la disciplina veicolata, la lingua veicolare. Nella sua serenità olimpica il Miur ha infatti dimenticato di organizzare la necessaria (ed evidentemente pluriennale) formazione; così la metodologia CLIL a cui i docenti italiani sono chiamati consiste, anziché nell'insegnare due materie in una volta, nel trascurarle entrambe, con le conseguenze, in termini di umiliazione della loro professionalità e di degrado dell'istituzione scolastica, che tu bene descrivi. Potresti farci avere, per cortesia, gli estremi della sentenza della Corte Costituzionale di cui parli? Di Remigio

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    3. Rispondo a Tiberio. Ci sono più motivi che spiegano perché la distruzione della scuola pubblica resti così nascosta. Innanzitutto la pressione dei dirigenti e, agli esami di stato, dei presidenti di commissione per minimizzare le bocciature e far lievitare le valutazioni (è un comportamento così generale che riesce difficile non pensare a precisi orientamenti da parte del Miur); in questo modo la mancata acquisizione delle competenze diventa invisibile e non allarma i genitori, che costituiscono il controllore esterno più immediato del lavoro scolastico - con questo, beninteso, non sostengo affatto che bisogna bocciare per avere la scuola di qualità. In secondo luogo la degenerazione della scuola è stata provocata soprattutto dalla sinistra con la complicità dei sindacati; questo ha confuso i docenti per carattere o tradizione più inclini ai valori democratici e puntato le loro critiche addirittura ai ritardi nell'attuazione dell'autonomia, anziché all'autonomia stessa. In terzo luogo con i progetti i docenti hanno ricevuto un'integrazione al loro misero stipendio. In quarto luogo l'onnipotenza dell'apparato propagandistico neoliberale ha portato all'evanescenza il senso della realtà. Infine non va dimenticato che la scuola italiana era già stata posta in crisi dal Sessantotto, che aveva liquidato l'esigenza della severità, dunque anche quella della scienza – a liquidare l'amore per i giovani ha pensato il neoliberalismo.

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  3. Ricordo che i commenti vanno firmati, anche con uno pseudonimo. I commenti anonimi non vengono pubblicati.

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  4. (Inserisco il seguente commento di un lettore che si era dimenticato di firmare)


    Un'ottima analisi. Purtroppo estremamente reale.
    Con simili manovre si cerca di abituare sin dalla scuola l'idea che viviamo in un ambiente dove la precarietà è l'unica alternativa, dove bisogna accettare ed abituarsi alla mobilità e allo svolgere più funzioni contemporaneamente, perché "l'uomo moderno deve essere sempre attivo, sempre in movimento": l'insegnante si ritrova a svolgere più funzioni di quelle che lo attendono: professore, impiegato di segreteria, assistente, informatico.
    Ovviamente per una retribuzione non corrisposta all'impegno profuso (perlomeno, dai pochi che sono in grado di profonderlo, o che vogliono credere nell'importanza dell'insegnamento corretto) non si darà da fare chi ha altre possibilità lavorative, più soddisfacenti e remunerative dell'ambiente scolastico, ma sceglierà di fare il ricercatore o il libero professionista. Di conseguenza, nella scuola pattuglierà l'esercito dei mediocri (con una piccola percentuale di docenti validi, consapevoli di perseguire una missione), avendo ripercussioni catastrofiche sull'apprendimento degli alunni.
    Si stanno creano dei prodotti, confezionati a seconda delle diverse clientele, ma tutti contraddistinti dalla mancanza di identità e dei mezzi per poter intravedere più agilmente le motivazioni di manovre ideologiche, spacciate per riforme economiche e scolastiche.
    La consapevolezza di dover essere accattivanti, di dover sapersi conquistare la propria fetta di mercato e di non poter bocciare, per evitare sia che si arrivi ad avere mancanza di aule, sia di avere iperclassi, sia di ricevere dei richiami, a causa delle proteste dei genitori, fa sì che gli insegnanti antepongano allo studio della disciplina la soddisfazione di ottenere ottimi voti, facendo annegare in una piscina d'ambrosia i propri iscritti (e i loro genitori).
    Si potrebbe affermare che tutto questo sia Globalitarismo?
    Concludendo questo intervento, mi pare che le riforme di adesso siano fortemente positiviste, volendo mostrare costantemente che il nuovo sia sempre meglio del vecchio: dato che il progresso scientifico e tecnologico funziona in questo modo, di conseguenza anche le riforme sono necessariamente migliori delle precedenti.
    Tutto questo per costruire questo gigantesco cavallo di legno, al cui interno c'è l'intenzione di creare un maggiore profitto economico (quindi flessibilità, quindi salari più bassi) e l'idea di vivere nel migliore fra i mondi possibili, perché gli altri sono messi peggio.
    Matteo

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