domenica 28 dicembre 2014

venerdì 26 dicembre 2014

L'antipolitica, quella vera

Qualche tempo fa la stampa ha riportato la notizia delle aggressioni verbali in rete ad Antonio Boccuzzi, ex operaio Thyssenkrupp scampato all'incidente in cui morirono sette suoi colleghi, e diventato deputato PD. Le aggressioni derivavano dalla sua scelta di votare a favore del “Jobs act”. Non intendo qui discutere di questa sua scelta, aggiungo solo che le violenze verbali o gli auguri di morte rivolti agli avversari politici sono una cosa stupida e deprecabile. Volevo invece riflettere su un altro punto. Prima di leggere questa notizia, io non sapevo nulla dell'on.Boccuzzi. Su wikipedia trovo che è un sindacalista UIL, e che nella sua attività di parlamentare si è occupato, com'è naturale, di problemi del lavoro. La domanda che nasce spontanea è, ovviamente: perché questa persona, degnissima ma evidentemente simile a tante altre, diventa deputato? Sappiamo tutti che c'è una sola risposta: perché è scampato a un incidente che ha avuto grande risonanza mediatica. I vertici PD che lo hanno scelto, e gli elettori PD che lo hanno votato, ritengono evidentemente del tutto normale determinare il corpo legislativo della Nazione in questo modo. Il punto interessante sta nel fatto che, io credo, nessuno, fra coloro che hanno scelto Boccuzzi, adotterebbe lo stesso criterio in altre situazioni. Immaginiamo di avere un serio problema medico, di star cercando uno specialista e di rivolgerci ad un amico per un consiglio. L'amico ci consiglia il dott.XY. Noi gli chiediamo “è bravo?” e l'amico ci risponde “non lo so, ma si è salvato da un incidente all'ospedale nel quale sono morti vari suoi colleghi”. Ovviamente penseremmo che l'amico è impazzito, o ci vuole prendere in giro, o forse non ci è poi tanto amico. Allo stesso modo, se fossimo coinvolti in una vicenda giudiziaria, o se avessimo dei soldi da investire, ci affideremmo ad un avvocato o ad un esperto di finanza il cui principale titolo di merito fosse l'essere sopravvissuto ad un incidente?  È ovvio che il giochetto si può ripetere per qualsiasi professione. Qual è il punto? Il punto è che la salute, i processi, i soldi (e i tanti altri problemi della vita quotidiana) sono cose serie, e nessuno vuole correre il rischio di affidarsi, quando si tratta di cose serie, a persone sulle cui capacità si possono nutrire dubbi. Ma è appunto quello che succede se il criterio di scelta è il fatto di essere sopravvissuto ad un incidente.
Con questo non si vuol dire che la politica debba essere lasciata in mano a ristretti gruppi di “esperti”, o che un operaio non possa andare in Parlamento. Il vero punto è il criterio di selezione. In questa vicenda, e in tante simili (magari senza fatti tragici sullo sfondo) quello che appare evidente è che il criterio di scelta è la notorietà mediatica, comunque ottenuta. E allora l'obiezione sopra svolta si può ripetere: è questo un criterio che sarebbe sensato adottare nelle vicende serie della vita, come quelle prima indicate? Mi sembra evidente che la risposta è no.
Che cosa ci dice allora questa vicenda? Ci dice che elettori e vertici del PD, evidentemente, non credono che la politica sia una cosa seria. E poiché analoghe vicende vi sono state in tutti i partiti, e non hanno causato particolari proteste mediatiche, possiamo dire che l'intero ceto dirigente italiano è convinto che la politica non sia una cosa seria, e che la maggioranza degli elettori italiani condivide questa opinione. È questa l'antipolitica, quella vera. Non Grillo.
(M.B.)

sabato 20 dicembre 2014

A volte sono strani

Intendo i giornalisti. Leggete per esempio qui: si parla di un sondaggio nel quale viene chiesto chi si desidererebbe come prossimo Presidente della Repubblica fra Napolitano, Bonino, Prodi, Draghi, Padoan, Veltroni. La maggioranza relativa (39%) risponde che non lo sa. Fra chi esprime una preferenza, il più "votato" è Napolitano, che raggiunge il 19%. Se questo sondaggio esprime correttamente le opinioni degli italiani, ciò vuol dire che circa un italiano su cinque desidera Napolitano come nuovo (si fa per dire) Presidente, mentre la maggioranza relativa degli italiani non si riconosce in nessuno dei nomi proposti. Bene, l'articolo riporta questa notizia scrivendo "Gli italiani, qualora potessero scegliere, al Colle vorrebbero ancora Giorgio Napolitano". A volte i giornalisti sono davvero strani.
(M.B.)

mercoledì 17 dicembre 2014

Duro lavoro

L'onorevole PD Micaela Campana è stata attaccata perché il suo nome compare nelle indagini su "Mafia Capitale". Replica alle critiche in questa intervista al Corriere della Sera. Fra le altre cose, ci spiega che ha "lavorato duro per 17 anni", partendo "dalle periferie difficili di Roma". Viene spontaneo chiedersi quale sia il risultato di questi 17 anni di duro lavoro. Mi par di capire che le difficili periferie romane siano ancora lì, con tutti i loro problemi. Ma Micaela Campana adesso è deputata, con i suoi 10.000 o 15.000 euro mensili (chi lo sa precisamente?), e col vitalizio assicurato, se non erro. 17 anni di duro lavoro a qualcosa sono serviti, dopotutto.
(M.B.)

martedì 16 dicembre 2014

Solidarietà a Giulietto Chiesa, contro tutti i regimi

Giulietto Chiesa è stato arrestato, e successivamente rilasciato, dalle autorità estoni. A quanto pare l'arresto è avvenuto poco prima dello svolgimento di un incontro, a carattere internazionale, a cui il giornalista doveva prendere parte. E' evidente che le autorità estoni hanno voluto impedire a Chiesa di partecipare all'evento, per ragioni squisitamente politiche.
Non sappiamo ancora quale sia stato il mezzo impiegato per fermare ed espellere Giulietto Chiesa. Una possibilità è che sia rimasto destinatario di una "semplice" misura amministrativa di espulsione, che esiste anche nel nostro ordinamento, ma che se slegata da concrete esigenze di sicurezza nazionale implica una violazione del Patto Internazionale dei Diritti Civili e Politici (art. 13), della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo (art. 16) e della Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea (art. 45).
Un'altra possibilità è che Chiesa sia stato dichiarato Persona Non Grata. Tuttavia, quest'ultima è una misura solitamente riservata ai diplomatici: infatti la Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche, al suo art. 9, stabilisce che ogni Stato può dichiarare P.n.G. qualunque membro delle missioni diplomatiche straniere, senza dover rendere motivazioni del proprio provvedimento. In rari casi ciò avviene anche ai danni di semplici cittadini: è accaduto a Gunter Grass e, sempre in un paese ex-sovietico, anche ad Al Bano.
Si tratta in ogni caso di un atto grave, preoccupante e ingiustificabile, e non c'è bisogno di spendere parole per spiegare perché.
Massima solidarietà a Giulietto Chiesa, dunque, e un augurio a riprendere al più presto la sua attività politica e giornalistica. Cogliamo l'occasione per esprimere la massima vicinanza umana a tutti quei professionisti dell'informazione, nonché attivisti politici, che in questi anni (e in questi giorni) hanno rischiato, o rischiano, hanno perduto, o stanno perdendo, la vita, la libertà, la sicurezza, gli affetti più cari per difendere un ideale o fare semplicemente il proprio mestiere; contro tutti i regimi, siano essi in Russia o in Cina, in Sudan o in Bielorussia, in Siria o in Iran. (I collaboratori del blog)

domenica 14 dicembre 2014

Signorilità




Non è una notizia freschissima, ma comunque interessante. Spero apprezzerete l'eleganza della direttrice generale di Confindustria. Poteva uscirsene, che so, con una frase del tipo “La volontà dei cittadini democraticamente espressa? Me ne frego!”, che è il modo in cui si sarebbe probabilmente espresso quell'altro signore che, anche lui, non amava troppo il voto democratico, specie quando i cittadini votano nel modo sbagliato. Invece la signora Panucci, una vera signora, ha evitato queste volgarità, e gliene siamo sinceramente grati.
(M.B.)

giovedì 11 dicembre 2014

Poche semplici parole

Qualche volta Beppe Grillo la dice veramente giusta. A Giorgio Napolitano, che pomposamente esterna contro la cosiddetta "antipolitica", Grillo ribatte "mentre la Repubblica affondava nel fango, lei dov'era?". E mi sembra un'ottima domanda, che prevedibilmente non riceverà risposta.
(M.B.)

martedì 9 dicembre 2014

La demagogia penale e la lezione di Beccaria

Vi proponiamo adesso un esempio di demagogia populista.
Si tratta di un (progettato) intervento legislativo in materia penale; si qualifica come demagogico essenzialmente perché, invece di tendere alla risoluzione dei problemi per i quali è stato concepito, introduce regole inutili, fuorvianti e ingiustificate: tutto ciò al solo fine di fare scena, non di governare razionalmente la società.
Renzi ha promesso di inasprire le pene per la corruzione, intervenendo anche in materia di prescrizione. Torneremo su questo secondo aspetto in un'altra occasione.

 L'inasprimento delle pene per la corruzione
Attualmente le pene per la corruzione per un atto contrario ai doveri di ufficio (corruzione propria) vanno da 4 a 8 anni (art. 319 c.p.), mentre quelle per la corruzione per un atto dell'ufficio (corruzione impropria) corrono tra 1 e 5 anni (art. 318). Lasciamo ora da parte la fattispecie più grave di corruzione, quella in atti giudiziari (art. 319-ter).
L'annunciato intervento di Renzi dovrebbe innalzare il minimo edittale della corruzione propria da 4 a 6; ciò al fine non tanto di impedire agli imputati di "patteggiare" la pena (in virtù del meccanismo di cui al 444 c.p.p., in teoria si può patteggiare anche un tentato omicidio), quanto di far sì che non possano usufruire della sospensione condizionale della pena e sopratutto dell'affidamento in prova ai servizi sociali: grazie al gioco delle attenuanti, giungere alle soglie previste per l'attivazione di questi istituti (rispettivamente 2 e 3 anni di pena comminata) non è così difficile se si parte da un minimo di 4 anni; diventa (quasi) impossibile se si parte da 6. Ecco la ratio dell'intervento.
Balza agli occhi il fatto che in questa maniera viene parificato il minimo edittale della corruzione propria con quello della concussione (art. 317), delitto comunemente ritenuto assai più grave del mercimonio delle funzioni pubbliche. Se però si dà uno sguardo alle altre parti del Codice, si scopre che la soglia minima di 6 anni è superiore a quella prevista per i seguenti delitti:
  • Violenza sessuale (art. 609-bis), il cui minimo è 5 anni
  • Rapina a mano armata (art. 628 comma 2), 4 anni e 6 mesi
  • Estorsione (art 629), 5 anni
  • Disastro doloso (quello della vicenda Eternit), 3 anni
  • L'associazione per delinquere aggravata (art. 416, commi 2-3-4), 4 anni
  • Associazione di tipo mafioso armata (art. 416-bis, comma 4), 5 anni
  • Sequestro di persona minore (art 605 comma 3), 3 anni
  • l'abbandono di persona minore o incapace da cui derivi la morte (art. 591 comma 2), 3 anni
Ed è pari al minimo edittale delle seguenti fattispecie:
  • Sfruttamento della prostituzione minorile
  • Sfruttamenti di minori nella produzione di materiale pornografico
  • Estorsione aggravata (art. 629 comma 2)
  • Lesione personale gravissima, da cui derivi la perdita di un arto, di un senso, una malattia insanabile ovvero una deformazione (art. 583 comma 2)
  • Omicidio della persona consenziente (art. 579)
Questi paragoni dovrebbero suggerire al lettore una considerazione: che forse abbiamo un po' perso il senso della misura.
Il lettore forcaiolo però potrebbe non essere soddisfatto di questa suggestione. Potrebbe chiedersi se l'inasprimento delle pene per la corruzione, per quanto sproporzionato, non sia utile per debellare il fenomeno. La risposta tuttavia è un secco no.

Cosa andrebbe fatto in realtà
Innanzitutto occorre chiarire che l'inasprimento delle pene non avrà alcun effetto sui procedimenti in corso, quelli che tanto hanno allarmato l'opinione pubblica: si applicherà invece ai delitti di corruzione commessi all'indomani dell'entrata in vigore della nuova legge. Ne vedremo gli effetti tra parecchi mesi, nel migliore dei casi. Quel che conta davvero è che innalzare le pene, di per sé, non serve a nulla, se non a confezionare uno spot a misura di premier.
Il perché è facile da intuire, ma per essere chiari diamo la parola a Cesare Beccaria:

Uno dei più gran freni dei delitti non è la crudeltà delle pene, ma l'infallibilità di esse. La certezza di un castigo, benché moderato, farà sempre maggior impressione che non il timore di un altro più terribile, unito colla speranza dell'impunità.



Non mi sembra di poter aggiungere altro.

Il risultato da raggiungere, in tema di corruzione, non è dunque la severità del castigo, ma la sua certezza. L'unico modo per concretizzare tale certezza è di introdurre un conflitto di interessi all'interno del sodalizio tra corrotto e corruttore.

Oggi il corruttore è punito con le medesime pene del funzionario corrotto (art. 321). Ciò determina una solida comunanza di interessi tra i due soggetti, che hanno solo vantaggi dalla mutua e reciproca protezione. Ciò rende il lavoro degli inquirenti estremamente difficile, e la probabilità di essere assolti da un'accusa di corruzione piuttosto alta.

Ora, quando lo stato ha voluto realmente debellare un fenomeno, ha introdotto un conflitto di interessi all'interno del gruppo criminale. Negli anni '70 questo paese era tormentato dal fenomeno dei sequestri estorsivi. Lo stato ha stroncato tale tendenza inasprendo sì la cornice edittale (che è la più spaventosa dell'intero Codice: da 25 a 30 anni!), ma prevedendo una serie di attenuanti, di cui menzioniamo la più significativa. Art. 630 c.p, quarto comma:
 Al concorrente che, dissociandosi dagli altri, si adopera in modo che il soggetto passivo riacquisti la libertà, senza che tale risultato sia conseguenza del prezzo della liberazione, si applicano le pene previste dall'articolo 605.

L'art. 605 incrimina il sequestro semplice, con una soglia minima di pena pari a sei mesi. In pratica il concorrente che si dissocia dal gruppo di sequestratori può vedere la propria pena ridotta di 50 volte; ed appare evidente come livelli di pena così alti siano congegnati apposta per rendere estremamente appetibile la conseguenza della dissociazione.
Questo semplice esempio dimostra che il legislatore, quando vuole, sa esattamente quali strumenti attivare per realizzare un vero contrasto di un fenomeno criminale.
In quest'ottica sarebbe sufficiente abrogare l'art. 320 c.p. per spezzare la comunanza di interessi tra corruttore e corrotto, rendendo così molto più facili le indagini e infliggendo un colpo durissimo ai fenomeni corruttivi.
Se poi si volessero davvero debellare la corruzione, basterebbe introdurre un secondo comma al nostro 320: non è punibile il concorrente nel reato che, per primo, denuncia la consumazione dello stesso.
Questa disciplina si potrebbe applicare anche ai procedimenti in corso, perché non configura una nuova incriminazione, bensì un'esimente speciale, capace di dispiegare i propri effetti anche retroattivamente.
E' facile prevedere che assisteremmo, all'indomani dell'approvazione, ad una corsa a chi arriva primo all'autorità giudiziaria...
Se la soluzione appare un po' troppo forte per i palati fini e garantisti, timorosi del fatto che l'esimente rappresente un'ipotesi talmente ghiotta da spingere qualcuno ad inventarsi accuse ai danni dei propri ex-sodali, è sufficiente inserire un correttivo: estendere a questi soggetti il regime di valutazione delle dichiarazioni provenienti da imputati nel medesimo reato o in procedimenti connessi (art. 192 c.p.p., commi 2 e 3); con la conseguenza che tali dichiarazioni non sarebbero sufficienti da sole a sostenere un'accusa in giudizio, ma dovrebbero essere corroborate da ulteriori elementi che le suffraghino.
Ecco la soluzione dell'emergenza (?) corruzione in Italia. Purtroppo non è abbastanza demagogica e spettacolare per essere adottata; e sopratutto non è abbastanza innocua (bene intendenti pauca). (C.M.)

lunedì 8 dicembre 2014

La verità di destra e sinistra


Ci sarebbero ovviamente tantissime cose da dire, sulle recenti notizie relative alle cosche affaristico-politico-criminali che infestavano la capitale. Ne riparleremo. Intanto segnalo un bel post di Miguel Martinez.

Per il momento mi limito ad aggiungere una considerazione: l'espressione “mondo di mezzo”, che è diventata ormai celebre, è ripresa da Tolkien. Si sa che Tolkien è stato, per un certo periodo in Italia, un autore “di culto” negli ambienti della destra. Il signore che usava questa espressione al telefono, mentre era intercettato, stava quindi utilizzando il suo retroterra culturale per esprimere quello che intendeva esprimere. Mi sono chiesto quali potessero essere i riferimenti culturali dei suoi sodali “di sinistra” nel malaffare. Certamente non Marx o Gramsci, che oggi a sinistra nessuno più legge. Probabilmente Benigni o Crozza. Ma questo in fondo conta poco, la cosa importante da capire è invece la seguente: le diverse tradizioni culturali della destra e della sinistra, che in altri tempi significavano idee diverse sulla direzione in cui indirizzare la vita sociale, oggi sono semplicemente “dialetti” diversi all'interno di un unico mondo di ladri e sfruttatori. La differenza fra destra e sinistra significa oggi questo, e nient'altro che questo: è la differenza fra i modi di esprimersi di una banda unificata di malfattori che sta distruggendo questo paese.

(M.B.)

venerdì 5 dicembre 2014

Le parole e le cose

Di questi tempi appare abbastanza evidente come la sinistra sia la parte politica maggiormente responsabile del disastro verso cui si avvia il nostro paese, e come il suo “popolo” sia totalmente incapace di capire questo semplice dato di fatto. Occorre naturalmente distinguere fra le tendenze di fondo del nostro tempo e il modo in cui esse si concretizzano nei diversi contesti. Non c'è dubbio che, rispetto al tema di cui stiamo discutendo, la tendenza generale è quella della trasformazione, da tempo compiuta, della sinistra europea da forza di emancipazione e difesa dei ceti subalterni (il che ovviamente non vuol dire: forza rivoluzionaria) a forza totalmente asservita agli interessi dei ceti dominanti, e funzionale alla distruzione dei diritti degli stessi ceti subalterni. Questa trasformazione richiede ovviamente un certo tasso di inganno e autoinganno, perché i ceti dirigenti della sinistra devono distruggere diritti e redditi dei ceti subalterni continuando a richiamarsi ad una tradizione dove si faceva il contrario, e i loro elettori devono in qualche modo credergli. La mia impressione è che questo gioco sia particolarmente evidente e “spudorato” nel nostro Paese, cioè che in esso appaia in maniera particolarmente evidente, rispetto ad altri paesi, l'inganno perpetrato dai ceti dirigenti della sinistra, e la radicata volontà del “popolo di sinistra” di non prendere coscienza dell'inganno. Nella sinistra del nostro paese vi è una scissione, particolarmente evidente, fra le parole e le cose, fra quello che si dice e quello che si fa. Ripeto, questo è un dato generale, ma mi sembra più accentuato in Italia. Se è davvero così, sarebbe il caso di chiedersi perché.
Prima di provare a fornire una risposta, possiamo fare un paio di esempi. Il primo, sul quale ritorno di tanto in tanto perché, lo confesso, a suo tempo ne fui particolarmente colpito, è quello del Partito dei Comunisti Italiani, che nel '99 fa parte (con 4 ministri, se non ricordo male) del governo D'Alema, e quindi si assume la responsabilità dell'aggressione alla Jugoslavia, cui il governo D'Alema partecipa assieme ad altri paesi NATO. Il punto è che il PdCI partecipa a questa guerra di aggressione imperialistica protestando e manifestando contro di essa e contro la NATO, senza che questo atteggiamento assurdo appaia, ai suoi elettori e in generale alle persone di sinistra, per quello che è, una intollerabile ipocrisia sufficiente a seppellire all'istante una forza politica.
L'altro esempio è quello di Walter Veltroni, che dopo aver fatto un'intera carriera politica nel PCI, arrivando nel 1987 ad essere eletto deputato al Parlamento nazionale, può tranquillamente dichiarare, dopo la fine del socialismo reale e dello stesso PCI, di non essere mai stato comunista. Anche in questo caso, senza che nessuno sembri rendersi conto, nel mondo della sinistra, che una simile dichiarazione dovrebbe essere sufficiente a classificare il suo autore come un mentitore privo di qualsiasi affidabilità e indegno di fiducia, e a troncarne di conseguenza ogni ambizione politica.
Il punto, in questi due esempi, non sta tanto nel fatto che il PdCI abbia fatto scelte politiche sbagliate, o che Veltroni possa essere definito oppure no un ex-comunista: la storia è piena di errori politici dei comunisti, ed è piena di ex-comunisti. Il punto è il carattere particolarmente “sfacciato”, impudente, sprezzante di logica, intelligenza e buon gusto, di queste scelte e dichiarazioni. Evidentemente i loro autori sapevano di poter contare su una indulgenza a priori, da parte del “popolo di sinistra”, nei confronti di simili macroscopiche contraddizioni.
Si tratta, lo ripeto, di una particolare declinazione nazionale di un dato epocale. Provo ad ipotizzare una possibile spiegazione. Mi sembra che una tale possibile spiegazione, o almeno un suo ingrediente, stia nel fatto che nel nostro Paese il partito che ha egemonizzato la sinistra, per tutto il secondo dopoguerra, è stato il Partito Comunista Italiano. Questo è in effetti un dato specifico del nostro paese, fra tutti i paesi occidentali. Altrove, i partiti comunisti erano o piccole formazione estremiste, del tutto ininfluenti, oppure erano (come in Grecia, Portogallo e in sostanza anche in Francia) parti significative della sinistra, ben radicate nel paese, ma minoritarie e non egemoniche nella sinistra stessa. In Italia, invece, “essere di sinistra” ha sempre voluto dire avere a che fare con la presenza egemonica del PCI.
Ora, a me sembra che il più elementare buon senso dovrebbe suggerire che un Partito si dichiara “comunista” perché intende realizzare il comunismo, e, di conseguenza, che un tale partito ha il dovere di spiegare cosa intenda per “comunismo” e come intenda arrivarci. Naturalmente, poiché stiamo parlando di un partito politico, cioè di una organizzazione nata per l'azione politica, la risposta alla domanda “cosa si intende per comunismo” non può essere una bella frase vuota del tipo “il comunismo è il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”, non può essere una enunciazione di principi generali del tipo “ da ciascuno secondo le sue capacità a ciascuno secondo i suoi bisogni”, non può essere una dotta discussione filosofica sulla natura comunitaria dell'essere umano. Deve essere un progetto politico di una società alternativa all'attuale che, senza essere delineato nei dettagli, ci faccia però capire alcune delle strutture fondamentali di tale società alternativa. Correlato a questo, e anche più importante per un partito politico, è l'indicazione di un ragionevole percorso storico-politico che  mostri la possibilità concreta di arrivare, in tempi non lontanissimi, alla configurazione sociale desiderata.
Ora, è evidente che nessuno si è mai sognato, nel vasto mondo del PCI e della sinistra italiana da esso egemonizzata, di chiedere questo tipo di chiarimenti e nessuno si è mai sognato di fornirli. Questo non vuol dire, ovviamente, che non si sapesse cosa intendeva fare il PCI. Le sue scelte politiche erano piuttosto chiare, sia in politica interna sia in politica internazionale. Il punto è che tali scelte politiche non avevano nulla di “comunista”. Il PCI era un partito comunista di nome, ma di fatto era un partito socialdemocratico nella politica interna e filosovietico in quella internazionale. Tutto questo non è necessariamente un male. Con queste caratteristiche, il PCI ha secondo me avuto una funzione essenzialmente positiva nel dopoguerra italiano, fino agli anni Settanta. Il punto è che questa strana natura del PCI aveva in sé i germi dei fenomeni degenerativi dei quali abbiamo discusso all'inizio.  Nel mondo della sinistra italiana egemonizzato dal PCI era considerato normale aderire a un “partito comunista”, o votarlo, o avere rapporti politici con esso, senza che per lunghi decenni nessuno si ponesse il problema di cosa mai volesse dire, per un partito politico di massa in un paese occidentale, “essere comunista”, e soprattutto cosa c'entrasse il “comunismo”, qualsiasi cosa esso sia, con la concreta prassi politica del PCI. La sinistra italiana è stata cioè abituata, dalla massiccia presenza del PCI, ad una radicale scissione fra parole e fatti, fra slogan e realtà. È stata abituata a trovare del tutto normale definirsi in un modo e comportarsi in modo diverso. E proprio qui, a mio avviso, sta una delle radici dei fenomeni degenerativi di cui si diceva.
C'è una conseguenza: se tutto questo è sensato, è chiaro che occorre essere molto diffidenti verso i tentativi, riproposti ogni tanto, di ricostruire un partito comunista in Italia: alle difficoltà oggettive si aggiungono infatti i dubbi, mai affrontati seriamente, su cosa possa voler dire, per un partito politico, essere “comunista”, in un paese occidentale. L'impressione è che con questi tentativi si cerchi in sostanza di ripetere l'esperienza del PCI, in una situazione nella quale non vi sono evidentemente più le condizioni che l'hanno resa possibile, e oltretutto perpetuando le ambiguità e le ipocrisie che hanno segnato quella storia. Non è davvero di questo che abbiamo bisogno. Nel bene e nel male, il PCI ha segnato una parte della storia di questo paese. Quella storia è finita, occorre costruirne un'altra.
(M.B.)





Questo post viene pubblicato anche su "Appello al popolo": http://www.appelloalpopolo.it/?p=12621

giovedì 4 dicembre 2014

mercoledì 3 dicembre 2014

Beata ingenuità

Il Sole24Ore parla dell'inchiesta sui fascio-mafiosi romani:

Per usare le parole del Gip Flavia Costantini, è infatti emerso «un trait-union tra mondi apparentemente inconciliabili, quello del crimine, quello della alta finanza, quello della politica»

Una cosa mai vista, signora mia!